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      BOY BEBORibelle Urbano
 
 
 
 
 
 
 
 
 PRECARI E SOVVERTITORI  
     JUST IN TIME. Sembra una canzone. Una di quelle romantiche, per balli molliconi 
      cheek to cheek (che effetto che fa ripetere espressioni che non si useranno 
      più!) o sogni ad occhi aperti. E invece è meglio aprirli di 
      più gli occhi non cedendo alla tentazione dei dissolvimenti fiabeschi 
      ma insieme stringere i pugni di fronte alla soluzione di una produzione 
      che vuole una forza-lavoro a comando. Solo su richiesta. Ho letto i libri 
      che mi hai consigliato di cercare: Andrea Tiddi, “Precari. Percorsi 
      di vita tra lavoro e non lavoro” e “Chain Workers. Lavorare 
      nelle cattedrali del consumo” entrambi di DeriveApprodi. E in breve 
      te ne scrivo, per quel che ho capito e per come sento i tempi. JUST IN TIME. 
      Tutto è merce e la merce ha subito uno scambio simbolico, una sintesi 
      di sentimenti e desideri. La chiamano “coscienza di marca”, 
      un universo-immaginario dell’impresa. Si sente parlare di fidelizzazione 
      del cliente, di servizio al cliente come se acquistare contenesse una protezione 
      (e pensiamo che ci protegga acquistare quella data marca) mentre in realtà 
      è una protezione dell’Azienda farci sentire allegramente obbligati 
      a farne parte con viaggi al portamonete.
 IN NERO. Lutto del lavoro/non-lavoro, C’è/non c’è. 
      I lavoratori vengono invitati a sottoscrivere dichiarazioni cautelative: 
      non avranno pretese nei confronti dell’Azienda. In realtà lo 
      dicono “adattamento” alle nuove leggi del mercato ma che si 
      profonde con armi antiche: l’umiliazione, il ricatto.
 Si chiede di divenire funamboli tenendosi in equilibrio tra inclusione ed 
      esclusione, integrazione e disintegrazione (ed è almeno curioso che 
      l’estremo significhi annullamento). L’odore di parole come “membro 
      di cooperative”, “operatore sociale”, non è meno 
      nefasto simbolo dell’assottigliamento del costo del lavoro e della 
      squalifica sociale (sociale…sociale…guarda un po’: una 
      rima!).
 Eccoli: precarizzati, plurimansionari, altamente convertibili, flessibili, 
      sommersi, discontinui, generici (altrimenti specialisti ma precari al contempo). 
      In attesa, un attesa non economica, non pagata, durante la quale si diventa 
      un soggetto occupabile e dove il lavoro è il premio e la Costituzione 
      un inganno dialettico. Non meno lavoro ma meno garantito, meno salariato. 
      “Premi di produttività” è il nome del contratto 
      non del suo vertice felice. Esubero è la parola rifiuto. Aspettativa 
      di vita? Di amore? Scarsa quella determinata dal proprio essere interni 
      al processo della produzione così ci si definisce attorno ad una 
      passione, ad un hobby. Ho sentito in autobus una lei dire a un lui: tu part-time 
      io interinale, ci amiamo ma in modo precario e l’amore fa media. Scherzavano?
 Il vertice perverso di tutto questo è la catena (non più di 
      montaggio-componenti ma umana) il premio è la fidelizzazione del 
      proprio disagio, l’orgoglio ‘marcato’, griffato, una concorrenza 
      tra poveri per diventare capo all’interno di una crew di cui non farebbe 
      parte nessuno senza un’insana percezione di sé dettata da un 
      mercato del lavoro concorrenziale (fosse solo questo rischierebbe di sembrare 
      sana palestra di efficienza e di progresso) ma soprattutto da ineliminabili 
      differenze di genere (uomo donna, ricco povero, nord sud, giovane vecchio 
      nella loro varia combinazione).
 L’agitazione serpeggiante promette una nuova guerra all’ingiustizia 
      fuori dalla tradizione internista del dibattito sindacale, autoreferenziale 
      al lavoro stesso e alle sue dinamiche di domanda offerta della forza lavoro. 
      In una fase sarà bene confrontarsi e usare gli sparuti strumenti 
      che la tradizione ci ha conservato come lascito molto indicizzato e moroso. 
      Poi sarà bene cercare soluzioni più decise e sarà naturalezza 
      così come il killeraggio seriale il vertice malato di una società 
      non sana. Così, anche estirpare un tumore come l’unico sobrio 
      e anestetico intervento non ne sovvertirà il riformarsi.
 
 
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