Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 03/10/2014 @ 12:59:38, in diario, linkato 1033 volte)
La questione è semplice: quanta fiducia abbiamo nella letteratura? O – per dirla altrimenti, nell’altra metà del bicchiere – che tipo di sfiducia abbiamo sviluppato in questi anni intorno alla letteratura? Di che natura è? Da quando abbiamo iniziato a pensare al genere – non a tutti i generi – come una forma di elisir, quanto meno per il tema “letteratura? Ne siamo consapevoli? Lo rifaremmo? In questi anni sono nate collane? Che scopi si proponevano rispetto alla letteratura? Chi le curava sente di avere assolto a un suo dovere “intellettuale”? Pensa di aver contribuito al vasto registro delle opere d’ingegno di quel particolare archivio che va sotto il nome “letteratura”? Può fare riduzioni del suo operato, dell’ascolto che ha avuto, del lavoro editoriale che ha effettuato sui testi che ha scelto? Tracciare una linea di congruità e di evoluzione? Se quel libro è scomparso dalla circolazione (“uscito dal catalogo” ha il suono di una più grave licenza) ritiene che possa avere ancora senso ripubblicarlo? Trovare un gusto più moderno del packaging editoriale potrebbe ridare a quell’oggetto-libro nuova vita “letteraria” che non sia archeologica? E altre domande (fuori da queste domande): ha ancora ragione d’essere la letteratura in questa sua particolare forma “autoriale” pura – per distinguerla da un’impura, che media attraverso l’accesso al genere il suo contributo? Esistono case editrici che sentono di aver assolto (o per lo meno di aver provato a bilanciarlo con quello necessario del profitto) al ruolo di contributori del discorso letterario?
Di Carvelli (del 17/09/2014 @ 10:06:09, in diario, linkato 1079 volte)
Questo di Giuliano Capecelatro su Roma ("Passeggiate d'autore", Iacobelli editore) è in qualche modo un libro compensativo. Per esagerare, o meglio per estremizzare, vorrei dire che qualunque libro su Roma è compensativo. È quasi una definizione: chi scrive di Roma cerca di compensare un torto. È vero che Roma ha avuto tanto dalla storia e che ha dato tanto a chi vi è transitato, nella sua storia. E diciamo che questa sua attitudine al mito e al rito di sé l'ha resa e la rende immortale. Eppure ogni giorno muore o, come scrive Filippo La Porta, continua a morire. Lui scrive, per essere esatti, nel suo "Roma è una bugia" (Laterza) "Tutto ciò che qui giunge finisce, però non smette di finire". Questa è la ragione della sua eternità. La sua immortalità è qui. In questo present perfect continous. Alla fine chi scrive di Roma si occupa in un certo senso di morte e, magari senza accorgersene, di vita. Ecco che Roma continua a fare il suo dovere balsamico. Vi capita mai di pensare che le strade che spesso si dedicano ai grandi scrittori - e ancor più e a maggior ragione ai piccoli vuoi per ragioni di toponomastica finiscono nelle periferie meno statuite - non sono mai le loro strade? E che quelle che lo sono state spesso conservano dei nomi desueti e che forse meriterebbero nuovi nomi o cobattesimi? Il rito compensativo comunale è la targa. Così ci si riappacifica col fatto che quel personaggio o quel l'evento non ha avuto abbastanza rilievo toponomastico. Dare il nome alle cose o ricordare è il modo più giusto per non perdere. O forse è solo quello che conosciamo. Ma certo qualcosa merita dei ripensamenti. Ad esempio in via Sant'Angela Merici, al Nomentano, già eterna ed eternata dalla parrocchia ha vissuto il grande Cesare Zavattini che è invece ricordato nella periferica Bufalotta senza una ragione biografica. Perché non ripensarlo? Toponomasticamente parlando? E' solo un esempio. Uno dei tanti che si potrebbero fare per non dover chiedere a questo utile libro di Capecelatro un rimborso compensativo della damnatio memoriae che una città pregna di passato è costretta a fare sine die. Uno degli innumerevoli e necessari. Uno, tra le altre cose, alto. Non tarato sul consueto sguardo da vetrina o da marciapiede a cui siamo abituati. Uno, tra le altre cose, nemico dei più piccoli nei suoi intenti educativi o didascalici.
Di Carvelli (del 13/09/2014 @ 18:22:20, in diario, linkato 1007 volte)
Giorgia - Ti amo settimana prossima che oggi sto un po' impicciata. Ma, se capita, ti chiamo. La vita fa un po' fatica con me: sto sempre di corsa e l'amore mi prende a giorni alterni. La domenica so di riposo gli altri giorni stacco alle nove: se ce la fai bene se no amici come prima. A l'amore ci penso un'altra volta. Ti posso chiedere un favore? Se nel frattempo capiti a Londra mi compri un paio di Dr.Martens rosse a stivaletto? I soldi te li do quando torni.
Di Carvelli (del 08/09/2014 @ 11:15:24, in diario, linkato 1057 volte)
“Pazza idea (Xenia)” è un bel film greco di Panos H. Koutras. Un film con molte simpatie italiane, non ultima quella per Patty Pravo che è il convitato di pietra di questa rutilante trama da road movie. Protagonisti del film sono Danny e Odysseus, due giovani fratelli di 16 e 18 anni che decidono di partire da Atene (ma il viaggio di Danny inizia da Creta dove vive con la mamma appena scomparsa) alla volta di Salonicco alla ricerca di un padre fuggito lasciandoli bambini. Il film funziona come un viaggio iniziatico con riti dell’amicizia e della conferma del sangue, iniziazioni, animali e oggetti transizionali. Albanesi di nascita i due ragazzi sognano o pretendono un risarcimento che si chiama in mente loro “cittadinanza greca” e che finisce per essere la conferma di un legame di sangue reale contro uno genetico, scientifico che è, al netto di tutto, inutile (e giustifica il bel finale aperto). E serve a rimarcare anche il duro contrappasso che la ricerca della purezza “genetica” può creare. Nella Grecia di oggi: convinta al razzismo per la catarsi di un fallimento economico che è fallimento “politico”, quindi un autodafé un po’ autoriflesso. “Pazza idea” può essere definito un film antigenere. Contro il razzismo in qualsiasi forma e per l’amicizia e i legami reali del sangue, non sessuali né genetici. Qualche sforbiciata nel viaggio e nella fuga (tutta la sequenza centrale, per intenderci) avrebbe reso il film più ritmico.
Di Carvelli (del 04/09/2014 @ 16:25:03, in diario, linkato 1029 volte)
I golfini, le merendine, le manine. Sudare freddo e caldo. Dopo arriva una leggera brezza e ci si mette a riparo. Roma non è una città dal brutto clima aveva detto rischiando di essere un profeta pessimo. Ma si sarebbero fermati due o tre giorni massimo. Giusto il tempo, per lui, per ricordare una tarda estate di molti anni prima. Per lei un ricordo decisamente lontano, ben oltre la consistenza realistica delle lancette, dei calendari eccetera. In pratica lei no, non era nata. Avevano parlato di procreazione assistita e di premierato, di calcio e di gelati, di una canzone dei Coldplay, di un calciatore che aveva lasciato la moglie. Poi aveva piovuto e lui si era perso in pensieri decisamente lontani.
Le cose stanno così: ognuno sta solo sul cuor della terra ma rompe i cojoni agli altri. Non si fa a tempo a vedere un raggio di sole che è subito sera. Che si fa?
Si esce? Sì ma nessuno vuole andare dove vuole andare un altro. Così rompe i cojoni a tutti. Poi esci e trovi le persone negli stessi locali. Tutti, ma proprio tutti, lì. Che fine hanno fatto tutti quei dissensi? Boh. Stanno tutti lì. Dissuasori e dissuasi. Torni a casa indisposto come indisposto eri uscito. Indisposto per chi non sa l'etimologia è un neologismo che viene da indispettire. Indispettito sei a casa e dici tra te e te che la prossima volta se deve andare così è meglio se te ne stai a casa. Almeno risparmi. Almeno non vedi quelle facce annoiate. Ognuno sta solo sul cuor della terra ma ci rincontreremo purtroppo negli stessi locali. Ma non sarà subito sera. Dovremo aspettare indispettiti e indisposti tornare a casa.
Nemo profeta in patria (o non sempre), ho qualche volta portato libri d’altri in case editrici in cui avevo pubblicato i miei o con cui ero in buoni rapporti. L’ho fatto convinto. Animato – mai senza – da una inflessibile legge della gratuità e del valore che avevo riconosciuto in quel testo che mi era stato mandato. Per dirla altrimenti: ho, le rare volte che è capitato, portato cose che ritenevo interessanti in luoghi in cui potevo essere ascoltato. Cose che avrei – non vorrei dire “pubblicato”, non essendo editore, anche se, per sensibilità mia, sono consapevole e partecipe dei rischi d’impresa – letto, apprezzato. Spesso immaginando che avrebbero potuto meritare non solo ascolto di altri ma di molti altri. Approfitto di questa breve dissertazione per raccontarvi dell’ultima volta in cui questa cosa è capitata. L’ultima, senza successo, per così dire anche se in ordine di tempo ne è capitata un’altra ma diversa: in questo caso, l’editore a cui segnalavo la proposta di pubblicazione ci pensava nel momento in cui la stessa era finita in altre mani, altre rotative, altri cataloghi. E ce ne siamo (inutilmente) addolorati insieme. Approfitto di questa breve dissertazione per segnalarvi un libro da poco uscito (non per merito mio, purtroppo) per una validissima casa editrice di ebook, la VandA. Il libro di cui mi sono fatto latore, senza successo (alle volte capita) è dedicato a Siracusa ed è bellissimo. Sia che siete ortigiani, siciliani, continentali, moderni o antichi, abitanti o in transito. Lo ha scritto Giuseppina Norcia miscelando sapientemente cultura, curiosità e capacità di visione. Sabato 9 agosto una recensione spiccava sulla prima della cultura del “Corriere della Sera” risaltando l’elemento forte di questa visione scomposta e, in un certo modo, biografica della città siciliana – biografica, poi vedremo in che senso. “Siracusa. Dizionario sentimentale di una città” (www.vandaepublishing.com/prodotto/siracusa-dizionario-sentimentale-di-una-citta/) è stato scritto come una mappa senzatempo, congelata tra passato e presente in una forma per così dire “destinata” quasi che un luogo potesse avere un modo suo (costruito nel tempo e su di sé) di farsi vedere diacronicamente. Quello della Norcia è un lavoro sul mito della città mosso da una conoscenza profonda nel dato visibile e in quello non altrimenti visto che nella forma di quel lavorio del destino. Il Bagno ebraico, le cave di pietra (“Non si può comprendere Siracusa senza vedere le sue cave di pietra… è questo calcare che le dà forma e fa di lei la città bianca, la terra della luce, della bellezza quasi insostenibile”), la Giudecca: Giuseppina Norcia mostra di conoscere la sua città come pochi altri. E di farlo nel nome di un rapporto con lei che ha costruito per dei tracciati che non sono solo cultura o studio ma un’assimilazione “di vita” che rende Siracusa un corpo di rovine “vive”, non solo parlanti ma “guardanti”. Viventi, appunto. E in quella forma sentimentale (sottotitolo del libro) che fa provare sentimenti ai luoghi e non solo dei luoghi. E’ un piccolo grande merito che forse merita più di una lettura. Ma, sono certo, leggerlo vi aiuterà a vederlo. E a viverlo. Anche se solo di passaggio.
Il concetto di Weltliteratur ha ascendenti goethiani e data 1827. Poi riscuote successo e trova in un certo afflato politico un rimbalzo diffuso e vario. Persino Mazzini ne coglie sviluppi quantomeno “europei”. In molti c’è, dunque, associata l’idea di un superamento dei confini dei popoli che dà alla letteratura la forza di una visione totalizzante secondo un’aria di romantica unione dei popoli. Qualcosa che, per altro verso, ha trovato forse piena e non sempre felice realizzazione in entrambi i sensi. E tanto, per altri versi, da far domandare a Parks se – ad esempio – il largo uso di “oggetti tipicamente americani” che fa Franzen (che rimane comunque molto letto fuori USA) abbia un corrispettivo in un altrettanto uso di particolari minori in libri di altre culture, di altre letterature. E’ una domanda. Parks risponde: no. “Ma non è vero – scrive – l’opposto. I lettori statunitensi e britannici non sono sommersi dai testi stranieri e, forse con l’unica eccezione dei gialli, mostrano grande resistenza alle minuzie dei paesi di cui sanno poco”. Erich Auerbach, a proposito, avrebbe avuto ragione in più per dire, prefigurando senza saperlo: “ Per mille ragioni, che tutti conosciamo, la vita degli uomini su tutto il nostro pianeta si sta uniformando”. Mille ragioni e una ancora. Non è la stessa roba di cui congettura Goethe quando scrive: “Io intravedo l’aurora d’una Letteratura Europea: nessuno fra i popoli potrà dirla propria; tutti avranno contribuito a fondarla”. Mentre forse, in realtà, Parks si sta domandando se (come nel caso, ad esempio, della nostra Francesca Marciano) non sia il caso di scrivere direttamente nella lingua di questa letteratura mondiale (poco o nulla goethiana). Sciogliendo i piani della traduzione e dell’adattamento. Rimestando sul fatto che forse ha così poco senso “welt” leggere i nostri scrittori (e soprattutto farli tradurre e/o farli conoscere fuori dai nostri “borders”). O forse no e se no cosa chiediamo e perché alla penna dei nostri autori. Di tracciare una linea che strabordi il nostro piccolo “welt”? Pensando – ancora una volta è un esempio – quanto gli ultimi cinque insigniti dal premio Strega siano indubbiamente portatori di una letteratura molto “italiana”. Che la nostra classifica “Narrativa italiana” metta insieme ai primi posti degli esempi di innegabile “confinamento”, di indiscutibile “giallismo” (e ritorniamo a Parks che forse voleva sottolineare come il lettore britannico è disposto a viaggiare fuori di sé solo partendo e chiedendo da/a una trama non “anglosassone” di essere di definitivo impatto escatologico come solo il noir sa essere). In tutto ciò di goethiano c'è davvero poco. Mentre di globalizzato c'è sempre di più.
Il tema saliente del pezzo di Aldo Busi raccolto da Stefano Ciavatta (che lo affianca al suo reportage sul “di cosa vivono gli scrittori”) è proprio il “come vivono”. Lo/li trovate ancora per poco nel numero settimanale di pagina99 in edicola. Come vivono gli scrittori o, meglio, come sbarcano il lunario. A quali leggi hanno scelto di piegarsi. E con quale dignità lo hanno fatto (o non fatto). Il pezzo di Busi è magistrale e merita l’archiviazione (che divertente il suo elogio dell’archivista di mail – sue – in cui vengono registrate le varie offerte ricevute (da lui stesso) per essere l’animatore di battaglie non culturali!). “Sono lo scrittore che sono perché sono l’uomo che sono, non c’è scissione, anche se la vita è più importante di qualsiasi opera e operetta, ma quella l’ho data per persa da subito e non me ne sono mai pentito”. Così Busi, quasi alla chiusa. A cui non sottrae una prefigurazione definitiva: “con la differenza che io qui ci sarò sempre, l’Italia no”. Il suo fiume in piena – non privo di vortici spassosi e letterari – non manca una riflessione sugli anticipi e rivela quanto la scelta della loro accettazione possa cambiare le cose. Non manca neppure una conoscenza del mondo editoriale smaliziata e trasognata alo stesso tempo. Indice della giusta distanza di quella che chiama “ricezione” e di giusto peso accordato alla “passione”. Mi sembra un pezzo importante perché a suo modo “civile” (senza però polveri d’oro e lustrini conseguenti). Non faccio fatica a immaginare che si possa scrivere, altrettanto e con forse maggiore e minore (dipende dai lati della ricezione) forza dirompente, di “come vivono e, ancor prima, cosa voglia dire essere o non essere un buon AD in Italia (sempre di essere qualcosa e “qualcuno” in Italia trattasi), un buon politico, un buon impiegato, un buon professore di liceo. Anche se, in questi ultimi due casi di specie, è troppo forte il peso della sussistenza rispetto a quello del rispetto. Da cui: non si può non essere un eroe/martire o un disperato perché chi male alloggia, male (o per nulla) ospita. E morta lì.
Sembra incredibile come un racconto possa diventare tutt’altra cosa nelle mani di un bravo regista. Accade spesso anche in quelle di uno non bravo, per dire. Ma in questo caso parliamo di uno abilissimo (Monicelli) e di un film riuscito (“La grande guerra”). Omaggio – più o meno dichiarato – a un racconto di Maupassant che ho riletto da poco. Il racconto si intitola “Due amici”. I protagonisti (Sauvage e Morrissot) poco sembrano aver a che fare con i nostri Gassman e Sordi. Diversa la lor pacatezza, l’amicizia, la passione scanzonata per la pesca e la casuale caduta in mano militare. La guerra – nel racconto quella franco-prussiana – del film è la Grande (con uno slittamento verso il passato più recente e doloroso della Seconda che non può che essere tattico nella scelta del team di scrittura italiano), che in questi giorni rievochiamo pregni di imbarazzo per la sua efficacia mortifera di cui non possiamo dirci pentiti stante la contemporaneità di molti altri conflitti in cui in qualche modo entriamo come protagonisti o antagonisti, suggeritori o suggeriti. Il film monicelliano (l’idea era dello sceneggiatore Vincenzoni) ha una parentela labile con il racconto di Maupassant a cui aggiunge spunti dalla grande letteratura del fronte. In definitiva, è nella soluzione finale il legame tra il plot della novella e il più articolato sviluppo del film. Un andare a ritroso che ha reso fortuna e successo alla pellicola di Monicelli senza togliere grandezza al bel racconto di Maupassant. “Mi te dis proprio un bel gnent faccia de mer…” dice Gassman con insolito rabbioso eroismo alla richiesta del luogo di costruzione del ponte del tenente mentre nel racconto del grande novelliere francese la richiesta era di una parola d’ordine. Un gesto di scrittura e creazione che mi fa pensare a quanto la scrittura cinematografica novecentesca abbia vissuto di legami benefici e trasudi (anche se non dichiarati) con la grande letteratura. Un modo di lettura e scrittura diffuso che, anche quando parliamo di commedia, non manca di suggerisci la statura elevata di quel pensiero di artigiana confezione dei soggettisti del primo grande cinema italiano.
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