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 La culla di Hvammstangi... di Carvelli
 
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Com'è, o Mecenate, che nessuno vive contento della sorte che la ragione gli ha dato o il caso gli ha gettato davanti, e tutti invece non fanno che esaltare chi persegue una vita diversa?

Orazio
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 07/05/2009 @ 09:40:57, in diario, linkato 839 volte)

Cose di cui vorrei parlare (Una lista)

Due per me. Due di tutto.
La morte fortuita di un piccione.
Il mondo alla fine del mondo. Cose da dire (a chi e cosa).
Imparare a tirare la sfoglia.
Come se ne esce se non si sa (o non si ricorda) come si è entrati.
Ringraziare e uscire.
Dire basta.
Dire non domani (dire adesso).
Imparare le facce che non so fare (fare una scuola?).
Imparare una una nuova tecnica di abbraccio (e che duri).
Saper fare il bollito, lo spezzatino, l'arrosto (senza fare una scuola).
Fare i compiti (anche se non fai scuola).
Ritornare a scuola (il tema è la vendetta o la rivolta?).
Un'altra volta ancora prima di morire lei che dice "mi fai la treccia?" (sarà facile?).
Pettinare una bambola (visto che si dice tanto in modo denigratorio).
Fare un giro su una ruota del luna park.
Bere fino...appena un passo prima di stare male. 
Due per te. Due di tutto.

 

www.youtube.com/watch?v=7QF01ypaF4o

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Di Carvelli (del 05/05/2009 @ 09:27:41, in diario, linkato 812 volte)

Largo
 
O lasciate lasciate che io sia
una cosa di nessuno
per queste vecchie strade
in cui la sera affonda -

O lasciate lasciate ch'io mi perda
ombra nell'ombra -
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce -

E non chiedetemi - non chiedetemi
quello che voglio
e quello che sono
se per me nella folla è il vuoto
e nel vuoto l'arcana folla
dei miei fantasmi -
e non cercate - non cercate
quello ch'io cerco
se l'estremo pallore del cielo
m'illumina la porta di una chiesa
e mi sospinge a entrare -
Non domandatemi se prego
e chi prego
e perché prego -

Io entro soltanto
per avere un po' di tregua
e una panca e il silenzio
in cui parlino le cose sorelle -
Poi ch'io sono una cosa -
una cosa di nessuno
che va per le vecchie vie del suo mondo -
gli occhi
due coppe alzate
verso l'ultima luce -

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Di Carvelli (del 04/05/2009 @ 17:38:27, in diario, linkato 859 volte)

"In ogni storia a un certo punto arriva una grande svolta. Uno sviluppo imprevisto. La felicità è sempre uguale, ma l'infelicità può avere infinite variazioni, come ha detto anche Tolstoj. La felicità è una fiaba, l'infelicità un romanzo". (Murakami Haruki - Kafka sulla spiaggia - Einaudi p. 173)

E ora un po' di felicità (da Miyazaki - Laputa, il castello nel cielo che ho visto ieri)

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Di Carvelli (del 04/05/2009 @ 09:03:45, in diario, linkato 2555 volte)

L'autunno

Che succede di te, della tua vita,
mio solo amico, mia pallida sposa?
La tua bellezza si fa dolorosa,
e più non assomigli a Carmencita.

Dici:"E' l'autunno, è la stagione in vista
sì ridente che fa male al mio cuore".
Dici - e ad un noto incanto mi conquista
la tua voce - :"Non vedi là in giardino
quell'albero che tutto ancor non muore,
dove ogni foglia che resta è un rubino?
Per una donna, amico mio, che schianto
l'autunno! Ad ogni suo ritorno sai
che sempre, fin da bambina, ho pianto".
Altro non dici a chi ti vive accanto,
a chi vive di te, del tuo dolore
Che gli ascondi; e si chiede se più mai,

anima, a dove e a che, rifiorirai.

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Di Carvelli (del 30/04/2009 @ 15:22:42, in diario, linkato 1624 volte)

Murakami Haruki. Kafka sulla spiaggia. Intervallato a La solitudine del maratoneta (che chissà perché, nel racconto che dà il titolo alla raccolta, non ho provato emozioni ma la sensazione che la scrittura un po' invecchia alle volte, cose che ho pensato rileggendo a volte Il giovane Holden). Decisamente migliori altri racconti. Dirò meglio. Di MH tanto da dire ma è presto. Una macchina possente adatta a uccidere mosche, o mosche adatte a fare letteratura con pochi battiti d'ali. Un fatto di porporzioni. E pure un po' di coraggio.

Ma di MH faccio dire un po' a Aimee bender in questo articolo tratto dal sito di minimumfax.


Il capolavoro

Il libro più intuitivo che ho letto
L'uccello che girava le viti del mondo di Murakami Haruki


di Aimee Bender

Mia madre scoprì la danza all?età di nove anni, e diventò subito l?àncora della sua vita. Andava a lezione quattro giorni a settimana dopo la scuola, ha attraversato in tendue e tour-jeté il percorso dalle superiori all?università, amando il senso di controllo che la danza conferiva al suo corpo.
Solo a trent?anni vide per la prima volta un balletto dal vivo della compagnia di danza moderna di Martha Graham. Era il 1970, e aveva subìto il fascino dell?enorme pubblicità che avevano fatto alla compagnia. Era vittima di questa propaganda. Avendo comprato una serie di biglietti a tariffa studenti per la Royce Hall dell?UCLA, si piazzò sulla balconata e guardò la compagnia esibirsi per tre sere consecutive. A che si doveva tutto questo gran parlare? Lo spettacolo non era poi così impressionante. La sera dell?ultimo spettacolo, vide dal suo balconcino un posto libero in prima fila e, volendo cambiare punto di vista, corse giù dalle scale e se lo conquistò, non sospettando che la serata che aveva di fronte le avrebbe completamente cambiato la vita. Il balletto quella notte era Clitemnestra, e la prima ballerina era la Graham stessa. E, anche a sessant?anni (e forse in parte proprio per questo) la performance della Graham come donna intrappolata in un terribile dilemma, colpì mia madre al cuore. Non era grazia decorativa. Non era leggero satin rosa. Il movimento aveva una fluidità che sovvertiva l?ordinaria natura delle regole della danza e un?imprevedibilità che corrispondeva alla situazione della protagonista. Nessuno poteva immaginare come si sarebbe mosso il corpo della Graham un attimo dopo. Mia madre era seduta sulla punta della sedia. Mai nella vita, lei, una patita della danza classica, aveva sentito il potere istintivo della danza come in quell?occasione. Dopodiché, disse di non aver mangiato né dormito per due giorni. Era così completamente nutrita e rinforzata da quello che aveva visto che non ne aveva bisogno. Ho sempre invidiato questa storia, perché mi sembrava così meravigliosamente intensa - non aveva neanche mangiato? Io, costantemente affamata, non posso neanche immaginare una cosa del genere. Volevo un?esperienza così anch?io. Da quando conosco mia madre è talmente influenzata dal mondo flesso e contratto della Graham che è difficile immaginarsela prima di questo episodio, nascosta nelle regole dei plié. Non riesco a trovare per me una storia parallela alla sua, ma capisco meglio, anno dopo anno, la sensazione che ha provato. Il momento in cui la curva dell?apprendimento esce fuori dal grafico. È l?opposto di memorizzare le date per le lezioni di storia, sperando nell?impossibile, che i fatti rimangano impressi. Alcune performance, alcuni libri, film o lezioni, distruggendo le regole, insegnano a chi hanno di fronte tutto in una volta. E poi tutto questo si deposita dentro, nel profondo, filtrando piano piano. Penso che questa sia la cosa migliore che un?opera d?arte possa fare: ridurmi a una sorta di stato pre-verbale di nutrimento e apprendimento. Ma è raro che accada.
Ho iniziato il libro di Haruki Murakami, L?uccello che girava le viti del mondo in aereo, sembrava abbastanza interessante e la prosa era leggibile e senza pretese. Ero stanca per via dell?aereo e non volevo un libro che mi richiedesse troppo in termini di complessità delle frasi e avevo sentito parlare bene di questo libro da un amico fidato. Stavo andando avanti, godendomi lo strano corso degli eventi, quando all?incirca dopo cento pagine mi sono imbattuta in una scena di violenza così raccapricciante e sconvolgente che a malapena riuscivo a toccare le pagine del libro. Fino a quel punto non c?era niente nel libro che potesse indicare che all?improvviso, nel bel mezzo della storia di un giovane disoccupato che mangia sandwich, mi sarei ritrovata a leggere di un soldato scorticato vivo in Mongolia durante la Seconda Guerra Mondiale. Quando più tardi sono tornata a rileggere quel pezzo sono rimasta sorpresa scoprendo che la scena era lunga solo un paio di pagine: sul momento mi era sembrato che andasse avanti per sempre. Il giorno seguente ho chiesto all?amico che mi aveva raccomandato il libro se ci fossero altre orribili sorprese, cosa rara per me ? generalmente non mi piace sapere niente di quello che viene dopo. Ma Murakami poteva andare ovunque con il suo romanzo. Dovevo seguirlo alla cieca, e questo mi lasciava sconvolta e allo stesso tempo intrappolata.
In classe, un mio studente, Brian, commentò quello stesso punto. ?La cosa strana di questa scena? disse alla classe ?è che sembra l?apice massimo di un climax ma compare nel primo quarto di libro. Che resta da fare poi a Murakami??
Dopo aver finito il romanzo ci ho pensato per settimane, mesi. Non riuscivo a togliermelo dalla testa. Più ci convivevo e più acquisiva ricchezza e complessità nella mia memoria. Con una trama complicata, non è così facile da riassumere: il romanzo è una sorta di storia epica su un disoccupato che fa un viaggio surreale quando sua moglie un pomeriggio scompare, e allo stesso tempo, attraverso monologhi e flashback illustra il ruolo del Giappone nella Seconda Guerra Mondiale. E? un libro voluminoso e sciatto, a circa due terzi del quale il narratore fondamentalmente scompare, con disappunto del lettore, e ci sono innumerevoli personaggi inspiegabili che compiono azioni che non ho mai veramente capito. Appena qualcuno di loro colpiva il mio interesse, spariva. Murakami scrive come uno scrittore di gialli ? pare che sia un ammiratore di Raymond Chandler ? ma a differenza di uno scrittore di gialli non dà molte risposte, e quelle che dà sono comunque abbastanza aperte a diverse interpretazioni. E? anche un appassionato di jazz e forse questo determina la sua attitudine per le strutture intuitive. Se un lettore cerca la completezza, allora questo è un libro molto frustrante. L?ho letto tre volte adesso, e mi si svela ogni volta di più, ma ci sono ancora movimenti e percorsi circolari che non riesco a fissare. Ma. Non mi importa niente. Davvero non me ne frega niente. Perché ciò che mi insegna è in ogni pagina, indifferente a quello che accade. In Murakami c?è qualcosa di estremamente presente in ogni frase, lui è lì, nella storia, a lottare con essa insieme a noi, completamente intuitivamente concentrato e credo che sia questa forza delle sue intenzioni che mi fa credere ciecamente in lui. La coreografia della struttura del romanzo, come la danza moderna, segue le sue proprie regole. Niente viene imposto. E? un percorso determinato dal coinvolgimento assoluto che Murakami ha nel suo stesso modo di procedere. Per quanto ben confezionata, la forma è assolutamente secondaria. [?] Per sostenere il movimento della storia, attinge a tutto quello che può: surrealismo, psicologia, storia, sociologia e una bizzarra e meravigliosa varietà di voci. E? una grande storia, e lui lo sa, ed è chiaro che scriverla gli ha richiesto una grande concentrazione. In un?intervista rilasciata a Salon.com, Murakami parla dell?atto di scrivere e di quanto debba prendersi cura di se stesso fisicamente per prepararsi. E? per lui un processo che richiede così tante energie che si deve ricordare di fare attività fisica e mangiare bene in modo da avere la forza e la concentrazione necessarie per andare avanti con la storia. Quasi come un atleta, o un ballerino. Nel libro della Graham, Memoria di Sangue, lei riflette sul fatto che un ballerino muoia due morti: ?la prima, quella fisica, quando il corpo allenato sempre al massimo non risponde più come vorresti. Dopo tutto io faccio coreografie per me stessa. E non metto mai nelle coreografie movimenti che non saprei fare io stessa.? La seconda è la morte vera, quella che tutti affronteremo.
E così è in Murakami: coreografare per se stesso, tenere il corpo più in allerta possibile in modo da poterlo applicare ai movimenti e alle espansioni della mente. Forse questo determina in qualche modo la sensazione fisica del suo narrare. I paesaggi sono astratti, ma i personaggi sono carne e ossa: mangiano costantemente, fanno sesso, benché in modi inusuali, si arrampicano nell?ambientazione e interagiscono, fisicamente, sia con il tangibile che con l?intangibile.
Per questo sento di dedicare un?attenzione irresistibile al suo metodo di raccontare, non ho nessun interesse nel risultato della trama di Murakami. Mi interessa solo capire che scelte fa. Affido ogni mio desiderio sul libro interamente a lui, e in quel momento, diventa il miglior insegnante possibile.
Spesso quando amo così tanto un libro, divento possessiva nei suoi confronti e mi arrogo il diritto di avere un legame speciale con l?autore. Nei casi peggiori divento gelosa e meschina quando qualcun altro dice di amare anche lui quel libro. Ma per qualche inesplicabile ragione, con Murakami, mi sento come se ce ne fosse abbastanza per tutti. Incoraggia la condivisione. Può avere legami speciali con chiunque, grazie a Dio. Mi piace molto insegnare questo libro, perché oltre ad esserci moltissimo da dire sembra scampare a qualsiasi decostruzione distruttiva. [?] Uno dei miei passaggi preferiti del romanzo è uno dei più tranquilli. Il narratore, Toru, è a un punto di svolta del suo viaggio, ma non c?è nessuna direzione verso la quale andare. Sua moglie se n?è andata. Lui ha incontrato fisici, soldati, clienti di telefoni erotici, politici, adolescenti e uomini d?affari. Ha battuto ogni pista che aveva. Così, suo zio gli dice che in momenti come quello a lui piace andare in giro e guardare le facce delle gente. Toru è uno con la mente aperta, quindi va in città, a Tokio e per diverse pagine, Murakami ci descrive con calma il suo personaggio principale seduto a guardare la gente, aspettando che succeda qualcosa. La scrittura è semplice e diretta. Sembra normale chiedersi se Murakami stesse facendo la stessa cosa, stesse aspettando che il suo romanzo gli dicesse dove andare. Molti autori tagliano questi passaggi, è probabile che li scrivano, ma nell?ultima bozza, non vorranno più mostrare questo tempo di attesa. Ma Murakami in questo caso non edita il suo modo di procedere per i lettori. Il suo modo di procedere è il nostro e quello di Toru. Toru incontra qualcuno, ma non succede niente per un po?, invece, attraverso i piccoli dettagli rivelati tra le pagine, Murakami ci ha già spinti gentilmente quel tanto che basta per andare oltre. Il fatto che lui, come scrittore, abbia insistito per includere questo passaggio, mi rassicura profondamente. Mi interessa tutto il tempo in cui Toru guarda le facce ? un altro momento fisico tangibile ? anche se è certamente un punto della trama non molto eccitante. Ma Murakami è lì, che lavora, ascolta e io lo stesso. Quello che fa, per me, è creare una fede solida come una roccia. Metto tutto il mio essere di lettore nell?intensa focalizzazione del suo ascoltare. Questo è quello che cerco, sempre e comunque nei libri: quando trovo il punto in cui lo scrittore può prendersi tutto il tempo che vuole, commettere degli errori, rovesciare tutto, sono felice. Vivo all?interno di ogni frase così profondamente che ovunque mi guidi, la seguirò con interesse. Non posso parlare per mia madre, ma la mia sensazione, quando lei racconta la storia della Graham è che ciò che ha provato quella notte sia stato un completo abbandono al movimento che stava vedendo sul palco. Si è arresa ad esso. Si è affidata alla ballerina sul palco e la sorpresa e l?inevitabilità di ogni momento si sono infiltrate in lei diventando una parte definitiva del suo modo di vedere il mondo. E per quanto la mia esperienza con Murakami non abbia lo stesso carattere di quella di mia madre con la Graham, perché è stata più lenta e più densa e in un certo senso meno immediata, ne rimango colpita. Nel suo modo paziente il libro è strisciato nel mio cervello, e non dà segno di volersene andare.

(Traduzione di Lorenza Pieri)

http://www.minimumfax.com/stampa.asp?p=%2Fnewsletter.asp%3FnewsletterID%3D23%26nl%3D4


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Di Carvelli (del 30/04/2009 @ 09:09:21, in diario, linkato 1725 volte)

"Quando si è infelici il tempo passa in fretta, checché se ne dica. Nessun punto di riferimento segna il suo trascorrere, nessuna gioia distingue un giorno dall'altro. Niente all'infuori del dolore, sempre lo stesso". (da La moglie di Gilles di Madeleine Bourdouxhe).

Mi ripeto ma ogni tanto mi piace rileggere la perfetta sensibilità di questo piccolo capolavoro che è come un Casa d'altri belga. Il titolo francese è decisamente più ricco di implicazioni. Un breve classico del tradimento coniugale, una delle sue migliori rappresentazioni in letteratura. Un libro poco conosciuto a cui poi un film recente ha ridonato luminosità. I primi capitoli sono bellissime pagine di accudimento filiale. Come una piccola quiete che anticipa la tragedia in senso classico senza perdere però nel confronto sobrio freschezza e pathos. Né mai cede modernità.

http://it.wikipedia.org/wiki/Madeleine_Bourdouxhe

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Di Carvelli (del 24/04/2009 @ 08:43:22, in diario, linkato 1135 volte)

Ti lascio questa casa gelsomino
per tutte le volte che sono partito
e tornato
e per questa
che mi aspetti a vuoto
contando i fiori
e l'odore.

Ti lascio in buona compagnia
di gemme nuove
e di un cartello
che inviti ad entrare,
a non lasciare.
Perché nessuno va
nessuno torna
su questa piana strada.

Ché non resti rimpianto,
ché non resti dolore.
Del tanto che abbiamo
fatto e detto
e di quello che rimandiamo.

Ho usato tutto
ho preso tutto.
Solo i fiori
restano.
E la casa resta.
E un piccolo dolore
che ora che ci pensi
è già andato,
insieme al profumo dei fiori.

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Di Carvelli (del 22/04/2009 @ 09:08:50, in diario, linkato 1335 volte)

Un articoletto su AmiciPerLaCittà

COME DIFENDERSI DAI CRITICI CINEMATOGRAFICI
Istruzioni e modalità d’uso (di Gran Torino e Two lovers e della funzione del critico)
Roberto Carvelli (19/04/2009)

Da quando c’è Maccio Capatonda il comico dei vari Mai dire... che rivisita nell’assurdo il trailer cinematografico mi costa più operazioni di decodifica e più brividi di ilarità l’ascolto degli “appuntamento al cinema”, “coming soon” et similia. Se non conoscete questo geniale comico cercatevelo e ridetevela su YouTube!
Leggere il giornale a caccia di consigli per andare al cinema presenta rischi analoghi e senza neppure il filtro ironico del comico di cui dicevo sopra. Avete presente? “Il film dell’anno”, “Il film che ha fatto gridare al capolavoro” (“gridare” sì!), “Il film che ha fatto ridere la Francia” e giù una gragnola di aggettivi in levare: a coppie, a grappoli affiancati da un audace estensore, critico ufficiale di un giornale o il giornale stesso (una selezione di parole che spesso misconosce il tono intero della recensione da cui è tratta). Non può servirvi la misurazione degli ingombri delle locandine nel quotidiano, indice di solito del maggior battage pubblicitario legato alla pellicola e di conseguenza (molto spesso) le cifre del botteghino. Da cui: dovrebbe ritornare in auge la figura del critico cinematografico. Ma forse bisogna adottarne uno più che fare media su tutti. E sempre esercitare il dubbio. Io ho scelto sovente Roberto Escobar (Il Sole 24 Ore della Domenica) con cui mi trovo di frequente in sintonia (ma, esercitando il dubbio, con The Wrestler sarei stato meno indulgente). Mi consta che ci si deve fidare dell’età. Diversamente dal vino, invecchiando spesso il critico peggiora manifestando collusioni con registi che nel frattempo ha conosciuto, prefato, introdotto, presentato.
Altro tema di riflessione dovrebbe essere il titolo. I titoli italiani, le traduzioni di quelli stranieri. Nella discrasia tra l’originale e il nuovo – almeno per le lingue di cui possiamo dire – si capisce l’atteggiamento della casa di distribuzione ma anche lì si possono fare belle scoperte dietro inefficaci adattamenti al gusto italiano (c’è chi conosce i nostri gusti!).
Dunque come difendersi? Come offrire al consumatore (potrei, come molti altri d’altronde, iscrivermi in questo registro con la media di due-tre film a settimana) un pratico vademecum per fare luce sulle sofisticazioni – perché di sofisticazioni si tratta – che la pubblicità mette in opera?
Sarebbe necessaria una specie di patente del critico, un codice a cui deve attenersi, delle semplici regole che vadano nella direzione di un’oggettività per quanto minima che, al di là del gusto, analizzi la corrispondenza del racconto alla storia che vuole narrare, una basilare analisi logica delle immagini, un puntuale esame della grammatica del film e una acuta osservazione dei toni. Nel presente, con spirito civico e senso della responsabilità partigiana invito tutte le persone con cui vengo a contatto a vedere due film che reggono entrambi (non essendo film a lente di ingrandimento o passaparola) la campagna pubblicitaria roboante. Lo faccio anche qui.

1. Gran Torino ennesima prova di equilibrio tra retorica ed emozione di Clint Eastwood che a forza di conferme ripetute si è conquistato un suo piccolo marchio Doc. La sua meditazione sulla violenza – attualissima o, meglio, urgente – continua a sfidare la nostra coscienza appena ora – parlo di quella nostrana – faccia a faccia con il tema immigrazione. Anche questa volta come fu per Mystic river (in un certo senso anche in quella specie di dramma degli equivoci un gesto ingiusto riconsegnava un quartiere alla luce della festa) al male con c’è soluzione ma il sacrificio qui ripara e salva una famiglia pur se il prezzo da pagare è alto. Questo nuovo film di Eastwood è un Gran Film: esuberante di sentimenti positivi ma non sdolcinati, la retorica è dietro la porta e lì rimane.

2. Two lovers un utile ed efficace riflessione sull’amore (saperne!). E due attori in stato di grazia Gwyneth Paltrow e Joaquin Phoenix. L’amore ci gioca dei brutti scherzi: i tragici greci ce lo hanno insegnato con i capricci degli dei e la hubris degli uomini, oggi ce lo dice la nostra imbarazzante volatilità davanti alle tentazioni con il continuo senso di sconfitta e inanità che ci pervade a seguire.
Dopo averlo visto ho pensato a un racconto di Cechov La signora col cagnolino e a quello che scrive il grande critico americano Harold Bloom a proposito dello scrittore russo. Bisogna scrivere in modo che al lettore non serva alcuna spiegazione da parte dell’autore: era il credo di Checov e farlo proprio dovrebbe rientrare nell’etica di qualsiasi rappresentazione. In quel racconto un adulterio non è un comandamento infranto e lo scrittore non ci dà l’alleggerimento della morale. Nel film americano succede la stessa cosa: la sola figurazione spiega. Non è necessario fare del cattivo un orco e del buono un fesso (un genere minore in cui è difficile eccellere, il grottesco e il banale, ovvero una caduta di stile) basta raccontare. Ed è vero che uscendo da un racconto del medico russo come dal film Two lovers si finisce per sentirsi migliori (“più semplici, più sinceri, più noi stessi” Bloom cita Gor’kij). Al bello, in definitiva, continuo sempre a preferire l’utile ed è questo che mi aspetto dalla critica.

www.amiciperlacittà.it

 

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It was in Owindoli

Mentre quelli sciavano io invece leggevo questo articolo (da la Repubblica delle Donne di quel giorno che ora ritrovo grazie a mano amica.
Ecco

http://dweb.repubblica.it/dweb/2009/03/14/societa/societa/123rel637123.html


Calcolo dei minuti perfetti
di Romano Madera*

Basta un attimo solo per rendere la vita degna di essere vissuta. Non un attimo di piacere isolato, ma un attimo capace di imprimere un senso, di regalare una prospettiva. Ci sono istanti che non passano, forti e pregnanti al punto da non essere eliminati: sono centri di luce. Nella vita ce ne sono, come i momenti di commozione, o di illuminazione intellettuale, o di riconoscimento del dolore. Ricordate il film La storia del cammello che piange, dove una cammella, per il troppo dolore provato durante il parto, non riconosce il suo piccolo? La musica, il suono di un violino, la fa commuovere e avvicinare al cucciolo, finalmente riconosciuto e accolto? Questo riconoscimento dell'altro ci è necessario anche soltanto a sopravvivere. E a vivere. Due persone che si commuovono, si "muovono con": e per accettare il dolore, a volte basta che un altro lo riconosca. Sono momenti fondamentali nella vita, anche se dolorosi, anche se le persone li fuggono. Questi momenti perfetti, attimi che ci cambiano, sono senza "ego", nel senso buddista: ovvero senza egoismo, ma non senza consapevolezza. Ricordo la prima volta che lessi il verso di Keats: "qualcosa di bello è una gioia per sempre". Avevo 16 anni e rimasi fulminato. Un verso che segna per sempre un amore adolescente o maturo, la gioia di un momento estatico dentro il tempo immobile di un pomeriggio estivo, l'accendersi di una intuizione improvvisa. Passarono molti anni prima che trovassi il mio orientamento ma questa frase, ancora oggi, è il centro della mia vita e del mio pensare. È una frase che, secondo me, racchiude anche il senso tragico dell'esistenza. Mi ha aiutato a riconoscere che in quella bellezza, in quell'attimo, c'è un'esperienza che non posso rinnegare; che resta, indelebile, anche nei momenti in cui sono a pezzi. Una di queste "gioie per sempre" risale ai miei 16 anni. Ero sdraiato su un prato con un amico, in campagna. Guardavamo il cielo, e passava un aereo. Niente di più. Assolutamente semplice. Ma stavamo bene, era un momento perfetto. Keats poi mi tornò in mente in uno dei primi amori, e da lì in poi quello è diventato il mio verso-guida. Ci sono tanti attimi presenti che ci cambiano, ma dobbiamo essere attenti. Spesso, invece, siamo ciechi o paralizzati o inerti, e non ci accorgiamo di nulla. Bisogna aprire la testa, gli occhi, il cuore. Solo in questi attimi presenti possiamo trovare un senso alla vita ed espanderci. Il piacere è un primo senso, ed è fisiologico, semplicemente. Il piacere, negli uomini e negli animali, è una direzione naturale, un semplice fatto etologico. Tutto si complica a causa del fatto, stupendo, che noi umani possiamo posporre il piacere, calcolare il piacere, scambiare il piacere. Ma il primo nucleo di senso universale è: noi cerchiamo il piacere. Ed è un fatto indiscutibile, come una legge della fisica. Bisogna costruire su questo, in modo intelligente, riflettendo. E qualche volta è necessario affrontare il dolore per avere piacere. Dobbiamo educare noi stessi, allenare le virtù, per riuscire a replicare e costruire il piacere nel mondo che inventiamo. Confesso di non essere d'accordo con l'enfasi del "qui e ora", che è diventato il comandamento universale della vita, della psicoterapia, del tempo. Un tempo e una cultura, i nostri, tutti spostati sull'immediatezza. L'attimo per sempre di Keats non è il "qui e ora" che ci viene costantemente propinato, poiché gli esseri umani hanno bisogno di un infinito, di un'eternità in cui trovare un significato per la propria vita. Oggi, purtroppo, questo attimo si sovraccarica di ripetizioni scisse l'una dall'altra. Una specie di schizofrenia seriale di massa. Life is now per comprare un telefonino oggi e un vestito domani. Al contrario, ogni canzonetta d'amore ripete continuamente il desiderio che l'attimo trovi la sua eternità: tu o nessuna mai più, noi per sempre, l'amore infinito eccetera. Cosa significa? Che cerchiamo un attimo che ci dia la luce, un attimo per sempre che meriti di farci vivere. Credo in una vita di attimi se questo attimo è costantemente costruito. Se stiamo cioè nel presente del presente, nel presente del passato e nel presente del futuro. Lo si vede anche nelle pratiche di meditazione, dove ci si sporge sempre sull'orlo di ciò che ci contiene. Bisogna sentirsi "qui e ora" ma dentro un orizzonte: io sono in questo momento. Ma questo momento è il tempo stesso. Fcciamo un esempio: se incontriamo una persona, per una riunione o per una cena, la incontriamo nell'oggi, nel momento, ma la viviamo, ne facciamo esperienza, attraverso e grazie a tutte le esperienze che abbiamo. Quella cena, quella riunione è anche l'incontro delle nostre esperienze, delle nostre biografie, e questo ci fa reagire, capire, accogliere, partecipare in maniera diversa. L'attimo ha senso perché ha una storia. Oggi, invece, nessuno ha più una storia, ed è terribile. Tutti vengono rapiti da una corsa insensata: accumulare esperienze, storie d'amore, storie di sesso, matrimoni, viaggi, case, oggetti, centinaia e migliaia di oggetti. I media e la società manipolano in maniera molto profonda questa esigenza degli esseri umani: in un mondo senza eterno, senza Paradiso, senza Dio, si spingono le persone a un accumulo caotico di esperienze, di cose, di incontri, di emozioni, di attimi. Oggi si dice che una cosa è vecchia per dire che fa schifo. Si dice: un'idea vecchia, un computer vecchio. Vecchio è diventato un giudizio. Ma chi lo ha detto? "Oggi è un buon giorno per morire" è un proverbio dei nativi americani. Un proverbio che spiega perfettamente cosa sia un attimo che ha senso e che contiene il tempo, ovvero che contiene tutti gli altri attimi della vita. Oggi è un buon giorno, dice il proverbio, perché oggi è stata una giornata densa, limpida, serena. Ma è un buon giorno per morire perché ho avuto tanti altri giorni come questo, e sono sazio della vita. È un proverbio opposto al nostro tempo, inquieto e ansioso. Ma come si trova la quiete, oggi che viviamo bombardati di cose e stimoli e immagini, quella quiete del capo indiano? Io credo che la si trovi solo con un lungo e faticoso esercizio. Prendiamo un pianista oppure un atleta. Cosa fanno, e come riescono a farlo in quel modo? Con l'esercizio. La psicoterapia non è altro che un lungo esercizio. E così anche trovare la quiete, dare un senso alla vita. Questo, la filosofia e tutte le religioni antiche lo hanno sempre saputo benissimo. Ma la sapienza un tempo era condivisa. Il capo indiano la esprime con tanta chiarezza perché fa parte della sua cultura, della sua tradizione. Oggi assistiamo invece a un pensiero e un modo di sentire controcorrente. Che cosa ostacola maggiormente la capacità di dare senso alla vita e prendere piacere? L'idolatria delle ose e del denaro. Il fatto che non c'è mai tregua se non abbiamo o viviamo cose diverse. La ricchezza, il potere, la fama: guarda caso, i tre vizi più tipici dell'umanità, e anche le tre tentazioni di Gesù. L'esercizio dell'espansione dell'Io nel cosmo non è una strada solitaria. Da coloro che fanno meditazione a quelli che praticano il tai-chi, tante persone cercano una strada verso la quiete e il senso della vita. In questo caso essere saggi ed essere utili è la stessa cosa. Bisogna intendersi, naturalmente, sulla parola utili: utili a che cosa? Si può essere utili anche a costruire le camere a gas. Ma un saggio che non sia utile a rendere percorribile la vita, a darle un senso che la renda sopportabile, non è saggio abbastanza.
(Testo raccolto da Carlotta Mismetti Capua)


*Romano Madera è professore ordinario di Filosofia Morale e di Pratiche Filosofiche all'Università di Milano Bicocca. Fa parte delle associazioni di psicologia analitica Aipa e Iaap. Ha pubblicato: L'alchimia ribelle (Palomar di Alternative, 1997), C.G.Jung. Biografia e teoria (Bruno Mondadori, 1998); L'animale visionario, (Il Saggiatore, 1999); La filosofia come stile di vita. Introduzione alle pratiche filosofiche, (con Luigi Tarca, Bruno Mondadori, 2003) e Il nudo piacere di vivere. La filosofia come terapia dell'esistenza (Mondadori, 2006). Ha istituito a Milano una scuola di ascolto filosofico e cura (per info: www.scuolaphilo.it/ philo.html). Il corso di formazione superiore in Analisi biografica a orientamento filosofico si rivolge a coloro che desiderano impegnarsi in un modo di vivere filosofico, e ha come obiettivo la cura dell'altro. Romano Madera partecipa a Torino Spiritualità con seminari di cura filosofica.

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Di Carvelli (del 20/04/2009 @ 08:47:11, in diario, linkato 1103 volte)

Il bellissimo concerto mingusiano dei quintorigo. Fastoso, colto, virtuoso.

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Completo la lettura di Coccioli, del suo bellissimo e stimolante Piccolo Karma, di cui ho già detto altresì. Sì.
E' un libro carico di riflessioni e mi ricorda un tempo già vissuto (e che in parte ancora vivo) di speculazioni intense, leggere ma vorticose e profonde: Sul senso delle cose, sulla corsa lenta alla fine. Passo a passo. Idea a idea. Vita a vita.

Visto MILK col bravissimo, ormai quasi una ridondanza ribadirlo, Sean Penn (chi mai ha pensato che a parte per la nota soprendente del suo ritorno sugli schermi si potesse paragonare questa interpretazione a quella di Rourke nel film tra l'altro meno sfaccettato di Gus Van Sant che come al solito si distingue - a volte pecca - di perfezione formale e formalismi sinanco). Il film è riuscito, è incoraggiante (marca hollywoodiana dell'happy end triste ma con morale), importante. Sopra le righe senza mai squadernare e non era facile.

Mi era scappato questo bel film turco, un po' per pazienti e ilari...altrimenti... Paziente e sereno (no, non ilare) l'ho visto e mi è piaciuto per il rigore delle scelte registiche e di scrittura...in realtà è un film silenzioso, visivo, fotografato.

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