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 il letto di ushuaia... di Carvelli
 
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E, come per la maggior parte del genere umano, fu così anche per me: scelsi il lato migliore per trovarmi poi nella condizione di non sapere come restargli fedele.

Robert Louis Stevenson
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 26/03/2008 @ 08:43:24, in diario, linkato 988 volte)

Naturalmente ci sono altre cose interessanti ma intanto mi piace segnalarvi questa intervista da una nuova rivista, al suo terzo numero, TRILOBITI. Di seguito l'emblematica storia di Valentina Brunettin (già Campiello giovani)

www.trilobiti.it/meteoriti/brunettin-campiello.html

Perché un Campiello è sempre un Campiello
Federica De Maria (a cura di) | 25-03-2008 | ITA
“Ho voglia di scrivere da morire”, confessa Valentina Brunettin. A 17 anni vince il premio Campiello Giovani. A 27 si scopre desiderosa di ricominciare. Storia di una cultura che “consuma” talenti troppo in fretta.

Valentina Brunettin, ma tu, chi sei? Raccontati.
Ho 27 anni, una laurea in Lingue e Letterature Straniere, uno stipendio in un ufficio legale udinese e una grande voglia di tornare a scrivere decentemente e di produrre qualcosa di interessante. Anche senza essere pubblicata.

Ma tu, chi sei stata? Ricordati.
Mi cimento in questo atto di rullamento del mio passato para-artistico come segue…
Ho iniziato a scrivere a 13 anni e, lo ammetto, nonostante i miei buoni propositi, mi sono ritrovata a buttare giù pezzetti di romanzi e racconti, mai terminati, il cui centro era sempre una bella storia d’amore gay. Ho cominciato a preoccuparmi quando, giocando con la Barbie, mi piaceva inventare storie dove Ken biondo e Ken moro (perché ne avevo due!) si mettevano a dormire insieme a Barbie che – sedotta e abbandonata dal più bisex dei due – andava ad abortire in gran segreto o partoriva (sempre in gran segreto) assistita dal suo miglior amico Big Jim (rubato al corredo di giocattoli di mio fratello).
Alla fine, dal teatro delle bambole sono passata alle parole scritte. Pensa che il mio primo racconto con inizio e fine (ormai cestinato) si chiamava “Misha nel buco della serratura” ed era un racconto dichiaratamente gay. Ovviamente la mia famiglia aveva intuito questa mia passione, ma pensavano tutti che scrivessi stile Moccia: amori, amorazzi, bacini.
Poi, a 17 anni, arriva il bando di concorso del premio Campiello Giovani. Mando L’antibo e per un soffio non supero il limite di pagine imposto. E a settembre mi ritrovo alla finalissima con altri quattro ragazzi.
Di quel weekend veneziano ricordo l’emozione e l’allegria e il piglio da finti intellettuali che ci caratterizzava un po’ tutti. Ci sentivamo veri scrittori, e l’età media era 16 anni.
Al mattino vengo nominata vincitrice nazionale. Mia madre per poco non sviene, io scivolo sul marciapiede davanti a venti fotografi sorridenti e poi per l’emozione della vittoria praticamente smetto di mangiare fino a sera.
Poi la diretta (in seguito differita) su RaiUno, il ritiro della targa vittoriosa e l’abbraccio di Nancy Brilli, piccola ma carina.
Grande cena a Palazzo Ducale e affollamento al banchetto-catering. Alla fine mi ritrovo nel piatto, dopo dura lotta, un po’ di polenta e una pallina di gelato. Di più non si riusciva a ottenere.
Una settimana dopo la vittoria, la Marsilio mi chiama e mi dice che L’antibo può uscire dall’antologica storia del Campiello Giovani e andare avanti da solo. Lo estrapolano, lo stampano e inizia un po’ di promozione, ma veramente minima (d’altronde non era possibile fare di più).

Ma tu, come ti sentivi? Confidati.
Ero davvero entusiasta di quello che stava capitando. Tuttavia ero spesso in imbarazzo di fronte al pubblico di quella o quell’altra conferenza perché il miniromanzo parlava della storia d’amore tra uno studente e un professore di filosofia. Il romanzino non è granché, o meglio, lo ritenevo anch’io notevole per una ragazzina, ma alla fine lo stile iperbarocco faceva sbadigliare anche me, quando scorrevo un paio di pagine.
Due anni dopo la Marsilio mi richiama e mi invita nella sede editoriale.
X. mi riceve con un sigaro e la sua prima domanda è:
“Signorina, ma lei, che cosa vuol fare da grande?”
“Bhé, non saprei… laurearmi… fare l’insegnante… ”
“Ma nooo. Intendevo nel campo della letteratura… ”
Insomma, aveva fiducia in me e nonostante le poco entusiastiche vendite del piccolo Antibo, mi dice che vuole darmi un’altra possibilità. Io avevo appena iniziato Fuoco su Babilonia e lui mi chiede di inviargli le prime dieci pagine. Da lì avrebbe deciso: se sì, quella era la mia ultima occasione, perché non poteva andare in perdita a causa di un sesto senso errato.
Le prime dieci pagine andarono bene. Ci fu un anno intero di lavoro. Io scrivevo, inviavo, la correttrice sistemava. Alla fine fu necessario un taglio di 100 pagine. Di cui non mi sono mai pentita, anzi. Ne venne fuori comunque un tomo, ma la tematica “storia d’amore gay + sterminio nazista” mi sembrava molto accattivante. E poi io letteralmente adoravo i personaggi e li ho vissuti per due anni con una tale intensità che alla fine nell’immaginazione ne sentivo le voci, vedevo le espressioni… tutto. Finire Fuoco è stato come condannare a morte la mia fantasia che, devo ammetterlo, a tutt’oggi non ha mai galoppato così tanto come in quel periodo.

Ma tu, che pensavi? Dillo.
Vabbé, la pubblicazione è stata fortunata, coincideva con la prima edizione di PordenoneLegge. Oltre a un mio love-affair con Y., ci ho guadagnato un po’ di visibilità. Ogni mese la casa editrice mi inviava recensioni e articoli, mi fissava appuntamenti e premiazioni (p.s. la gran parte dei premi letterari è pilotata…) Qualche critico voleva spellarmi e mettermi sotto sale e limone, altri mi volevano già bene.
Ma il problema era rendere accettabile il tema dell’omosessualità maschile, anche se alla fine ho compreso che l’ostacolo maggiore, forse, non era quello, ma il mio stile. Troppo prolisso e ridondante.

Ma tu, perché hai pubblicato? Incoraggiati.
La meraviglia dell’essere pubblicati, per uno scrittore, non è il senso di sazietà egocentrica che dà e tanto meno la possibilità di entrare in contatto con mondi/persone un tempo preclusi. Secondo me vedere la propria opera pubblicata significa darle una forma e collocarla nel tempo-spazio. Uno scrittore si sente come se avesse lasciato una traccia e poco importa se vende o non vende. C’è qualcosa che, dal momento della stampa in poi, segna la tua presenza.
Ovviamente il romanzo ha venduto poco e non è stato il successone che alla Marsilio prevedevano. Ergo, X. si è rintanato in un distinto silenzio da cui è uscito due anni fa con una telefonata impiegatizia per chiedermi se volevo acquistare le copie rimaste oppure optare per il macero. “La seconda che hai detto”, risposi, stile Guzzanti.
Un libro che vende poco e uno scrittore che di conseguenza “si vede” poco hanno un solo destino: sparire. Ciao articoli di giornale su commissione, ciao recensioni, ciao conferenze. Il circo allegro e vagamente vip ti dà un calcio nel sedere e così sia.
Sono tornata alla mia vita normale e tuttavia la mia passione, la scrittura, ha risentito del retrogusto amaro della vicenda. Sarei un’ipocrita dicendo che tutto è tornato come prima perché non è così. La voglia, le idee, lo spirito di scrivere barcollano, quindi ho preferito studiare, laurearmi [ndr. Con 110 e lode, nemmeno un mese fuori corso, voto minimo sul libretto? 30/30], cambiare ottocento lavori e alla fine ritrovarmi a fare l’impiegata full optional.

Ma tu, che cosa hai scritto? Addentrati.
L’antibo, dunque. Bo ha 16 anni, è di origine americana e ha serie difficoltà a studiare. In biblioteca incontra Adriano, un professore di filosofia che gli dà una mano, diventa suo amico, amico particolare. La storia si intreccia passo per passo con quella dell’imperatore Adriano e di Antinoo. Alla fine il secondo si suicida come realmente (pare) accadde, Bo invece ci ripensa ed esce più o meno intero dal suo stato depressivo-malinconico da adolescente. Ed esce anche dalla vita di Adriano dopo un outing con la famiglia.
In Fuoco su Babilonia, Spiegel “lavora” in un postribolo per uomini insieme con alcuni suoi amici. Siamo nella Germania nazista. Per una soffiata, il postribolo viene scoperto e sfasciato, con conseguente arresto di tutti e deportazione di Spiegel e Tizian (suo collega e migliore amico) in un campo di concentramento Lì, fra molte sfortune, Spiegel viene scelto per i suoi modi gentili come cameriere di un ufficiale SS. I due diventano amanti, consumano sesso fino allo spasmo. Poi il campo viene liberato. Il nazista scappa e Spiegel, a pezzi per le sofferenze e l’amore, ritorna in città con il suo amico Tizian. Lì, tra bombardamenti e miseria, si fidanza con un medico pur non amandolo così appassionatamente. La storia fra i due va avanti finché, per circostanze quasi casuali, Spiegel riuscirà a incontrare di nuovo l’ufficiale nazista, poco prima che questo affronti il processo e la probabile esecuzione.

Ma tu, sei in o out? Lamentati.
Se penso alla reperibilità dei miei romanzi, non posso lamentarmi. Ci sono esordienti che sono stati pubblicati a pagamento da case editrici poi dissolte nel nulla; aspiranti artisti che hanno prodotto cento copie presso un editore parrocchiale; giovani romanzieri che aspettano una risposta da sei anni.
Io ho trovato una buona casa editrice, non mi ha pagato ma non mi ha nemmeno spennato, e ha tentato la promozione dei miei libri come poteva.
Sono contenta, sinceramente non mi sento di accusare nessuno e, per quanto con tono dolceamaro, mi ritengo fortunata di aver provato l’ebbrezza di venir chiamata “scrittrice” a 18 anni.

Ma tu, che cosa sai? Svelaci.
Mi sembra che attualmente il mondo della letteratura italiana funzioni più o meno così: gli scrittori sono tutti una famiglia allargata, si amano e si odiano, ma alla fine nelle occasioni importanti sono tutti uniti. Chi ti fa la recensione giusta è un tuo amico, un giorno dovrai ricambiargli il favore. Chi ti ospita alla Fiera del Libro è un tuo conoscente, un giorno dovrai combinargli un incontro con il Papa. È così, ma non è poi così scioccante come sembra.
Perché io mi sono presa questa randellata stile Britney Spears della letteratura? Beh, perché l’editoria è commercio, non arte. E perché ci sono mezzipersonesistemi per poter guadagnarsi una nicchia nella lobby degli scrittori riconosciuti che io non ho saputo accogliere.

Ma tu, chi sarai? Anticipati.
Non mi rimane che fare l’impiegata, comprarmi un etto di stracchino alla settimana e farmi fare la French manicure per consolarmi. In realtà faccio tutto quello che credo facciano gli scrittori decaduti: trascurando i più (s)fortunati che si convertono in opinionisti o manager di profilo artistico, lavoro per vivere e ogni tanto produco qualche testo, magari lo invio a un concorso letterario rintracciato chissà-dove nella speranza di vincere un assegno, una pubblicazione anche antologica, una targa in Silver Plate o un weekend in una malga con tomino in omaggio.

Ma tu, stai scrivendo? Promuoviti.
Ultimamente ho scritto un racconto segnalato sul sito del concorso Frontiere-Grenzen. In genere, in questi ultimi tempi, mi dedico ai racconti brevi. Cinque di questi li ho collezionati in una mini-raccolta che provvisoriamente si chiama “Non mettere le dita nel naso”. Il primo racconto narra la storia di uno stupro, il secondo è la storia triste di un’attrice pornografica frigida; il terzo è lo scandalo gay in una boy band stile ‘Backstreet Boys”; il quarto è la vita di un transessuale; il quinto narra un episodio di violenza sessuale su una ragazzina di 13 anni, ambientato, scritto e pensato nel sistema dei ragazzini di oggi.

Ma tu, ci credi ancora? Globalizzati.
È un mondo difficile per noi miseri scrittori dimenticati da Dio, dagli editori e dai lettori.
Però io, una soluzione l’ho trovata. Se mai nella vita mi dovesse capitare di ripubblicare qualcosa di mio (ora ho abbandonato il tema gay perché lo sentivo un po’ esausto; mi getto sull’autobiografico e sull’erotismo sofferente), col piffero che vado alla Fiera del Libro o al Festival di Mantova: la mia strategia sarà pubblicare in allegato al romanzo un bel calendario. Il mio calendario…

Perbacco, lo prometti?
[…]

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Di Carvelli (del 26/03/2008 @ 08:54:44, in diario, linkato 1271 volte)

L'attenta lettrice L (L sta per Lettrice, infatti, ma non solo) ha remissato alcune cose che ho scritto negli ultimi tempi. Ecco il suo remix. Non è ballabile ma leggibile sì. (Grazie)

una tortura sobria e ben pagata
Ne verremo fuori tardi e male


"Molte cose trovano il tempo ma il tempo non trova molte cose"

Ein Hungerkünstler

Cosa resta, cosa cambia

l'aria nebulosa e vaporosa che hanno i ricordi lontani
vivo senza presenza
C'è vita nei sogni?

essere stati felici in una stanza buia

non esistono cose importanti - intendo "veramente importanti". E, viceversa, c'è veramente poco da fare per le cose necessarie, definitive.


Metto un punto
Su questo foglio bianco
Dove avevi già scritto
E poi cancellato
Tutto tu.
Aggiungo un segno semplice,
Il più semplice.
Scolorirà in un giorno.
Guardo
Questo inverno-primavera
In cui ci diciamo addio.
Guardo il posto che ti è stato assegnato
Dalla sorte bracciante
Per sprofondare nel futuro.
Mi dico che niente sarà più uguale a niente
Ora che ci siamo ritrovati
In quest’assenza numerosa
E che domani ti farà piacere
Sentire fumare il mio caffè.

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Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 11:57:46, in diario, linkato 1271 volte)

Delle volte mi scoppiano nella bocca frasi che dovrei trattenere. Delle volte succede tutto troppo velocemente e non faccio in tempo a frenare la lingua o a chiudere la bocca, a mettere silenzio tra pensiero e parole. Ieri ho pensato e fortunatamente non ho detto né scritto a chi mi aveva mandato il suo numero di telefono

"OK, SEI NEL MIO DATA-BASE"

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Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 14:15:40, in diario, linkato 1600 volte)

Approfitto dell'uscita del 3° numero della rivista internet Il seme sotto la neve www.ilsemesottolaneve.org (bel titolo da un libro di Ignazio Silone) per postare una recensione che spinge curiosità. E' interessante il tema della ipervolubilità degli acquisti e la concentrazione delle uscite editoriali. Un tema che prima toccava i piccoli (autori/editori) e sempre più tocca i grandi (autori/editori/casi in montaggio e smontaggio repentini nonostante "manovrine" varie).

“Le ultime ore dei miei occhiali” di Nino Vetri
recensione di Fabrizio Ottaviani

Il successo o l’insuccesso di un romanzo – in questo caso di un racconto lungo; negli Stati Uniti lo chiamerebbero forse novelette – può dipendere da mille ragioni. Può accadere, per esempio, che sia soffocato dai suoi stessi compagni di scuderia. Qualcosa del genere è accaduto con Le ultime ore dei miei occhiali, opera prima del siciliano Nino Vetri, edita da Sellerio. Nelle stesse settimane in cui usciva il romanzo di Vetri comparivano infatti sugli scaffali delle librerie due testi, sempre per i tipi della Sellerio, che gli facevano concorrenza: il romanzo di Pietro Grossi L’acchito, il cui esordio l’anno scorso era stato molto apprezzato dai critici; e un singolare volume, Il correttore di bozze a firma di Francesco Recami, il quale prova ad estrarre da uno dei mestieri più misconosciuti, fra quelli che ruotano attorno alla carta stampata, una sorta di metafisica – ma senza alcun radicalismo cabalistico – della parola o della cifra.

Schiacciati tra Grossi e Recami, Le ultime ore dei miei occhiali hanno finito, quasi per contrasto, con l’essere appiattite e ricondotte agli aspetti più superficiali. In due parole, si è visto in esse l’ennesimo specimen di letteratura adolescenziale, da mettere accanto al celeberrimo e frusto – per le letture che se ne danno, non per il valore intrinseco – Giovane Holden. Quando invece il racconto di Vetri è ad un tempo più esile e più profondo. Anzi forse sta proprio in questo il valore del volumetto del siciliano: nel contrappunto fra un “motivo” adolescenziale virgolettato e ritmico, disteso da un candore compiaciuto e adorabile, da una parte; e quello spesso, greve, composto da due voci, che rimbomba minaccioso dall’altra.

La prima linea narrativa è quella del giovane protagonista, impegnato in un’attività molto comune fra gli adolescenti, la costituzione di una band: «Qualche tempo dopo aver comprato il disco dei Ramones cominciai anch’io ad andare in giro col giubbotto di pelle e i pantaloni strappati alle ginocchia».

L’altra fa capo invece alla figura del nonno defunto: «Mio nonno cambiava spessissimo i connotati. Una volta aveva dei baffetti sottili, un’altra volta il pizzetto, qualche volta la barba. Ma sempre le mani ai fianchi e il mento puntato verso l’alto. Un retaggio. “Non facciamo i mammolini”, diceva».

Ma per comprendere in tutta la sua criminale estensione in cosa consista tale misterioso “retaggio” bisognerà compulsare l’ultima pagina, un explicit che sorprende per incisività. L’espediente geniale di Vetri è stato di inserire, fra il “retaggio” del nonno e il piacevole egocentrismo del nipote, una sorta di filtro, di membrana osmotica in via di saturazione. È il monologo, sempre più vago ed opaco, del padre, la generazione di mezzo. Ed è significativo che si tratti di un malato di Alzheimer il quale, fra la costernazione di tutta la famiglia, comincia a non ricordare più dov’è il frigorifero di casa, ripone il pane nell’armadio e quando esce a comprare qualcosa torna poco dopo a mani vuote perché non sa più la ragione per la quale era uscito.

Snodandosi lungo questi binari – il giovane protagonista impegnato nelle prove di un concerto; il padre perso dietro ricordi così lontani (la guerra, con le incursioni dei bombardieri americani e le fughe sotto l’urlo delle sirene) da essersi messi in salvo dall’Alzheimer; il nonno, del quale emergono a poco a poco le reliquie (un fucile mitragliatore tedesco, o il mucchio di negativi fotografici dai quali, opportunamente stampati, emergerà la lugubre sorpresa finale) – Le ultime ore dei miei occhiali dimostrano che è possibile, con materiali leggeri, costruire piccoli capolavori di narrativa; riuscendo perfino a nascondere, fra le pieghe delle parole, qualcosa che assomiglia a un’indigesta verità: che l’“umanità” di una persona può entrare a regime su piani molto distanti dalle sue azioni; e che la simpatia, il calore o l’affetto non sono necessariamente un rimedio perfetto contro la barbarie.

(L’Autore è critico letterario de “Il Giornale”)


Nino Vetri
Le ultime ore dei miei occhiali
Sellerio, Palermo 2007
Pag. 80. Euro 10

 

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Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 16:36:03, in diario, linkato 1483 volte)

Brunello, Bach, Capossela. Capossela, Brunello, Bach. Bach, Capossela, Brunello. Tutto qui? Tutto qui. Ma non era poco no.

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Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 09:53:53, in diario, linkato 1622 volte)

Riverbero l'invito alla lettura di Malacarne www.malacarne.splinder.com (a cui devo a suo tempo il rimbalzo della questione-Maggiani, una questione un po' cheap e un po' sgvadevole come si dovrebbe dire in un buon salotto) del libro di Filippo Tuena. Nel suo sito anche una buona dose di commenti.

Les Revenants
Devo ringraziare Gian Paolo Serino (Satisfiction) per avermi fatto scoprire un libro di bellezza strepitosa, Ultimo Parallelo di Filippo Tuena. …ribadisco il concetto, insiste Serino alla fine del suo articolo, leggete questo romanzo perché è un capolavoro. Lo è. È un libro potente e profondo, scritto con una lingua che ha il dono della nettezza allo stesso tempo musicale, immaginifica. È un libro sulla condizione umana.
Da tempo, fuori alcuni classici o scrittori come Mari o Moresco, non leggevo qualcosa del genere.
Noto poi una tragica coincidenza: il libro di Tuena è passato sotto silenzio quando per qualità e spessore avrebbe meritato ben più attenzione. È una cosa che sottolinea, rabbiosamente, anche Serino. Ed è una cosa che in effetti fa rabbia: come nel caso, ad esempio, di un altro libro altrettanto strepitoso, altro capolavoro, a mio avviso, solo di recente (ri)pubblicato in tutta fretta da Fazi, Necropoli di Boris Pahor (si pronuncia Pachor).
Il testo mi fu regalato qualche anno fa (edito dal Consorzio Monfalconese, coraggiosa e meritevole associazione culturale) da un mio amico triestino-sloveno, aggiungendo che si trattava di un grande, grandissimo libro sulla condizione concetrazionaria. Lo è. E finalmente, dopo anni, dopo che in tutta Europa è stato pubblicato questo splendido libro nonché gran parte dell’opera di Pahor (93 anni suonati credo), dopo riconoscimenti e premi internazionali, l’editoria italiana si è accorta che esiste uno scrittore sloveno-triestino (italiano?) di immensa qualità.
Ho domandato al mio amico come mai secondo lui scrittori come Pahor siano stati dimenticati così a lungo. Pahor non è l’ultimo arrivato. In Francia e in Germania, per citare due importanti mercati editoriali, i libri e articoli di Pahor sono stati tradotti e pubblicati. È uno scrittore che ha un peso internazionale. È conosciuto, rispettato, celebrato. Perché, perché in Italia, solo adesso, a 93 anni, (eccezion fatta per qualche opera pubblicata dalla coraggiosa e ahimé minuscola casa editrice Nicolodi), sul finire della sua carriera, ci si accorge di Pahor, ci si accorge di uno scrittore che altrove esiste e potentemente esiste? Perché è stato rimosso, mi ha risposto il mio amico. Perché quella parte della storia d’Italia e dunque della nostra cultura è stata rimossa.Verissimo…      
Casi editoriali a parte, cos’è questo silenzio che coglie con estrema precisione, che ha mira, che sa dove colpire? Come mai, a fronte del gruppo milanese, bolognese, romano, delle conventicole in genere, dei resoconti geo-letterari sulla nuova letteratura italiana su cui si dilettano svariati e noti editor-scrittori-giornalisti c’è un silenzio così ben calibrato, così negligente che ricopre scrittori la cui grandezza appare lampante, fulminate, che parlano dell’Italia, della condizione umana, della storia come pochi oggi, nonostante lo sforzo immenso, energumeno profuso degli addetti ai lavori, sanno fare?
Non è un caso dunque che questo silenzio, mi vien da dire, di cui “si macchiano” certi scrittori, sia oggi, tanto più oggi, feroce. Non ho motivo di dubitare del successo, quando viene, se viene e allorché meritato, eppure questo silenzio continua a sgomentarmi, soprattutto quando leggo libri sublimi e spaesanti come quello di Tuena o di Pahor e allorché di contro leggo invece libri mediocri, quantunque ben scritti, di scrittori ben più celebrati.
Bazzicando (uso il termine scientemente) nell’editoria noto la cialtroneria, l’approssimazione culturale, l’assenza di gusto e di critica, l’incompetenza trasversale con cui ho a che fare, cosa da metter in relazione all’avvento dell’editore/giornalista, questo mostro di sintesi che determina il peso sempre maggiore che nell’editoria (editoria soccombente in ogni senso) ha assunto oggi la stampa – tutta la catena che va dalla tipografia al misterioso indaffaratissimo giornalista da prima pagina – e quel sordido patteggiamento, quel frenetico tramestio che decide delle ricadute commerciali e dei gusti nonché dell’esistenza stessa di un’opera a prescindere dalla sua riconoscibile qualità (cosa confermata, garantita e ribadita dall’incapacità, soprattutto sul piano delle medio-grandi casi editrici, di premiare o semplicemente notare, accanto ai pur comprensibili “casi editoriali”, coloro che davvero valgono qualcosa anche se a vario titolo inattuali).
Ben vengano allora les revenants, questi scrittori/fantasma, queste ombre. Ci sono eppure non si vedono. E hanno altro fiato, altro respiro. Hanno altri orizzonti, ben altre mire. Appetitosi e per questo indigesti. Scrivono cose stupende e spiacevoli. Di sicuro non scrivono per gli editori. O per gli amici.  

Si legga Ultimo Parallelo di Tuena. E anche l’articolo di Serino, che ancora ringrazio.
 
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Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 16:03:15, in diario, linkato 1333 volte)

Un cartello dice

ZONA STERILE

ALLARMATA

 

Avrei voluto fotografarlo ma un altro cartello dice

 

NON FOTOGRAFARE

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Di Carvelli (del 28/03/2008 @ 16:09:51, in diario, linkato 1300 volte)

1 Scusa, sono occupato
2 Ti voglio bene
3 Arriverò alle
4 Chiamami per piacere
5 Per piacere dimmi come arrivare.
6 Per piacere Videochiamami.
7 Scusa, sono in ritardo.
8 Scusa sono in ritardo. Arriverò alle
9 Dove sei?

Queste sono le opzioni standard di messaggio che offre il mio (video)telefonino. Sto lì a pensare all'uso delle virgole e dei punti, alle azioni, alle mancanze, alle scelte, all'utilità di questo dire standard.

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Di Carvelli (del 31/03/2008 @ 16:35:13, in diario, linkato 1288 volte)
Dovrebbe essere come per un musicista una nota. Per uno scrittore ci dovrebbe essere un suono a cui far seguire altri suoni. Dovrebbe essere uno spunto, potrebbe essere uno spunto. Data una situazione tipo... E sviluppare un seguito. A volte accade proprio così. A volte riesce ma certo la musica è la musica. Le parole le parole. Forse non c'è il corrispettivo di una nota. In letteratura.
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Di Carvelli (del 31/03/2008 @ 16:40:31, in diario, linkato 1341 volte)

Dal blog di Mattatoia una poesia non di Mattatoia. Una poesia di Alessandra Palmigiano



Prego solo per questo rimanere

sulle cose che vengono bene

sulla grazia di questa pedalata

animalesca: non mi sfibreranno

i giochi le aperture le chiusure

né mi farò confondere dagli angoli

delle parole che consegnano troppe

cose, insieme troppe ma non vanno

 a stanarle, non stanano le cose.

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