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 LondonLetto... di Carvelli
 
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"Ho vissuto solo così a lungo che tutto quello che mi circonda è personale, privato. Non mi meraviglierei se non ci fosse più nessuno in grado di capire quel che dico". "Io ti capirò," disse con tenerezza. "Dammi solo un po' di tempo... e capirò tutto quello che dirai." Si strinse nelle spalle. "Ho anch'io un mio modo personale di scherzare..." "Da oggi in avanti..." dissi, "uniremo di nuovo i nostri codici privati e ricostruiremo un'intimità a due". "Sarà molto carino," disse. "Ancora uno stato a due," dissi. "Sì," disse.

Kurt Vonnegut
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Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 22/10/2007 @ 10:01:44, in diario, linkato 1803 volte)

Segnalo questa interessante riflessione di Christian Raimo sull'editoria. Grande editoria, mercato del libro, ipermercato della letteratura. Enfasi da capolavoro et similia.

Antrim, La vita dopo, e l’estetizzazione del dolore

di Christian Raimo

Perché un libro lacerante, divinamente scritto, narrativamente vincolante come La vita dopo di Donald Antrim (Einaudi, pag. 185, euro 17) è passato quasi del tutto inosservato in Italia, tanto che io, il 15 ottobre, in una delle librerie più grandi di Roma, ne ho comprato la seconda e ultima copia dall’inizio dell’anno, dato che delle ventuno che avevano ordinato a febbraio ne avevano già riconsegnate in resa diciannove? È un problema di iperfetazione del mercato editoriale? (Se vi capiterà mai di lavorare in una casa editrice e di leggere i dati di vendita, vedrete che in genere la curva delle vendite è – può essere – ascendente nelle prime due, tre settimane, e poi crolla miseramente) È un problema di iperconsumo del libro come prodotto da spacciare giornalisticamente? (Se mai vi capiterà di lavorare in una redazione cultura di un giornale, vedrete che di un libro dovete parlarne sempre prima che il libro arrivi in libreria, e sempre più prima degli altri giornali, e le recensioni – vedrete – si concentreranno in quel grumo di giorni che sta tra la l’annuncio promozionale dell’uscita e l’uscita vera e propria, perché dal suo arrivo in libreria il prodotto-libro in un certo senso è già scaduto, già vecchio, ingiallito; e per Antrim il caso è veramente emblematico, perché, a posteriori, a parte una breve segnalazione di Tiziano Scarpa, una citazione di Franco Cordelli, e una di Gian Paolo Serino, non c’è stata una recensione di rilievo, un’analisi del testo, un confronto appassionato con il libro) È un problema di Einaudi, di una casa editrice che non sa far valere i libri che pubblica: e dopo averne acquistato i diritti probabilmente a caro prezzo, dopo averlo fatto tradurre impeccabilmente da Matteo Colombo, lascia Antrim a naufragare in libreria da solo? (Se mai vi capiterà di lavorare come ufficio stampa per una grande casa editrice, svilupperete probabilmente una sorta di raggelamento della percezione estetica accompagnato da una specie di entropia della capacità retorica: dovendo ribadire in modo convinto tutto il giorno per tutti i giorni la centralità, la crucialità del libro appena pubblicato dalla vostra casa editrice che pubblica mettiamo trecento titoli all’anno, per cui praticamente uno al giorno, l’unico modo per far conservare un minimo di criterio di verosimiglianza alle parole che pronunciate, è non crederci, togliervi dal dilemma se quello che dite ha senso o meno) È un problema di difficoltà per il pubblico italiano di aver a che fare con questi oggetti narrativi strani che sono i memoir, che negli Stati Uniti hanno invece una loro dimensione, una loro legittimità autonoma di genere, non sono sentiti come libri ibridi? (Se mai vi capiterà di fare lo scrittore, vedrete che sarete colpiti dalla potenza, dalla radicalità della scrittura di memoir come L’opera struggente di un formidabile genio di Dave Eggers, Memorie di un artista della delusione di Jonathan Lethem, Zona disagio di Jonathan Franzen, Il velo nero di Rick Moody, per citare quelli che sono chiaramente i fratelli della Vita dopo)
Oppure – e questa è l’ipotesi meno amara – La vita dopo non se l’è filato nessuno perché è un libro che fa male, è un libro sul dolore che taglia le gambe, che fa piangere, che non sa essere consolatorio, ma forse è balsamico, però soltanto alla fine della lettura, soltanto a patto di essersi lasciati ferire, per empatia, da quello che scrive l’autore sulla sua famiglia, a patto di accettare che il solo conforto che può dare la letteratura è lo stesso che ci può dare l’avvicinamento a un qualche tipo di verità.

Cito due pagine, in cui Antrim parla del rapporto con la madre e con il padre, della crescita e dei bilanci della vita.
Pag. 167: “La maggior parte delle storie di mia madre – i racconti rabbiosi che mi riferiva, prima e dopo aver smesso di bere – sulla sua vita con mio padre contenevano, trovo, un’idea di miglioramento di sé attraverso la pratica di accumulare intuizioni sugli altri: se diamo un nome alle colpe di coloro che ci hanno fatto soffrire, saremo protetti dal dolore; se riusciamo a raccogliere prove sufficienti a giustificare la nostra rabbia, supereremo la vergogna: se proviamo pena per chi ci ha tradito, allora non saremo stati traditi, maltrattati, fraintesi, o abbandonati. Ma cosa succede quando il calvario dell’abbandono è – come ritengo sia stato per mia madre, e per me insieme a lei – la vita stessa?”.
Pag. 161: “Perché non racconto a mio padre cosa faccio? Ma cos’è che faccio? Passo le notti sveglio nel letto, eccitato dalle anfetamine, lottando per respirare. Suono Day Tripper dei Beatles su una batteria immaginaria con il mio amico John Covington che finge di suonare la chitarra. Cerco di racimolare il coraggio per saltare dall’alto trampolino della Florida State University, e pedalo sulla mia bicicletta rossa. Faccio ginnastica artistica con i Tallahassee Tumbling Tots, anche se non riesco ad andare oltre la ruota. Mi piace una bambina bionda di nome Susan che fa la terza elementare con me, però poi si trasferisce. Per anni sognerò di ritrovarla. Solo nella mia stanza, costruisco modellini di navi e aeroplani, dipingendo impaziente gli scafi, le mitragliatrici e le fusoliere dopo aver costruito i modellini, perché non vedo l’ora che siano finiti. Vorrei che la mia sedia, la scrivania e per pareti della stanza fossero dipinte di arancione, ma non succederà mai. Nella casa accanto alla nostra vivono un pompiere, sua moglie e il figlio, e la band del figlio, The Other Side, prova nel loro garage, e io vado lì e mi siedo su un amplificatore. La stanza odora di cavi elettrici bruciati. Uno dopo l’altro, i fratelli che compongono la band scompaiono in Vietnam. Io sono nei lupetti. La nostra capobranco ha i capelli neri e ci permette di lanciare gavettoni dal tetto di casa sua sui passanti che transitano al di là di un’altra siepe. Ha un figlio che non vediamo mai, anche se lo sentiamo suonare il corno in una stanza al piano di sopra. Giù in giardino, noi giochiamo e facciano la lotta, sporcandoci le divise azzurre. Un giorno, gli alti papaveri degli scout licenziano la nostra capobranco, e di lì a poco mi ritrovo in un cortile di periferia senza alberi a imparare a fare il nodo scorsoio, oppure seduto al tavolo di una cucina a dipingere bastoncini di zucchero su una tazza destinata a mia madre. In fondo al cuore so che qualcosa non va. Vorrei che mio padre tornasse da noi per sempre, invece che una volta al mese. Sono uno dei «mostri senza collo» in una Gatta sul tetto che scotta allestita al teatro dell’università. Sulla porta di un bagno dietro le quinte c’è un cartello che proibisce di tirare lo sciacquone durante la rappresentazione, e ciononostante io riesco lo stesso a tirarlo, e il rumore riempie il teatro. L’anno dopo, quando interpreto il giovane Madcuff, sul giornale esce la mia foto, accanto a un trafiletto che parla dello spettacolo. Nella didascalia io sono «il piccolo Donnie Antrim». Il fotografo mi ha chiesto di gridare, ma io sono troppo timido per gridare davanti all’obiettivo, però provo comunque a simulare l’agonia della morte, e sul giornale sembro un bambino che ride come uno psicopatico con un pugnale piantato nella schiena […]”.

Che cos’è che si trova in questo libro che non c’è in altri? Secondo me questo. In un epoca altamente letteraria come la nostra, in un’epoca in cui ogni forma di emozione, di esperienza viene altamente estetizzata, persino pre-estetizzata (ossia: l’estetizzazione viene prima dell’esperienza, l’esperienza è possibile solo se è stata precedentemente estetizzata), il luogo in cui uno scrittore si mette dev’essere proprio un altro.
Non quello dunque dell’estetizzazione dell’emozione o del dolore o della verità, ma quello del resoconto di queste due contemporanee, simbotiche, fragilità: la fragilità dell’esperienza e quella della memoria. Ribadire queste fragilità (senza farne per l’eccesso opposto una forma di auto-vittimizzazione) vuol dire praticare un tipo di scrittura il cui stesso tessuto semantico non è certo, non è fondato. Vuol dire esporsi. Ed esporsi per uno scrittore non significa parlare di sé, uscire dal proprio lavoro rilasciando interviste, con la personalizzazione del suo ruolo di scrittore, con la via corta della polemica, o dell’opinionismo. Ma significa: esporre il proprio testo a un continuo, immanente senso di fallimento, di non adesione, di non cogenza con quello che viene raccontato. Dove vuole andare a parare Antrim? Cosa cerca? Come riesce – per dire – a usare uno dei “generi” più in voga della nostra iper-narrazione del dolore, la tumorologia, senza cadere nel ricatto del contenuto, senza attendere alla serialità delle aspettative di quel movimento di “c’era una vita tranquilla / accade un trauma / si ricerca il senso della vita”? Così: smettendo i panni che si tentano ogni giorno di addossare a uno scrittore: quelli del gestore del senso. O qualcuno di voi pensa che uno scrittore dovrebbe avere più profondità, più capacità di qualsiasi altra persona nel dare ordine alle cose?

da http://www.nazioneindiana.com/2007/10/21/antrim-la-vita-dopo/

 
Di Carvelli (del 19/10/2007 @ 11:24:52, in diario, linkato 1302 volte)
Ogni tua risposta è questa "sì ma" eccetera eccetera. Ma sempre. Sempre sempre. Dico una cosa e tu "sì ma". Un rimprovero: qualsiasi cosa. Ci sarà una volta che ho ragione e basta? Una volta: mica due o tre. "Sì ma". Forse lo dici in automatico. Boh. Faccio male a domandarmi perché non dici "no"? E a domandartelo?
 
Di Carvelli (del 18/10/2007 @ 15:09:52, in diario, linkato 1370 volte)

E' bella la Mala kruna (Manni) di Franca Mancinelli (sì ne ho già parlato). Una maturità di sguardo che lascia preludere cose. Una voce esatta, un puntiglio. Un dolore calmo che accompagna, che non sposta. La sua piccola corona di spine non lascia, non costringe, non uccide. Se ferisce lo fa con buona pace di tutti i sentimenti. Niente è definitivamente perduto ed è per questo che tutto continua, anche se a strattoni di ricordi non tutti addolorati. E soprattutto senza lapidi. Belle soprattutto le ultime tre sezioni "Il mare nelle tempie", "Nel treno del mio sangue" e "Un rudere la casa".

se oggi avessimo la febbre insieme
staremmo come due cucchiai riposti
asciutti nel cassetto,
c'inventeremmo i piedi
avanti e indietro come stracci
per le carezze ai pavimenti,
o resteremmo nudi come chiodi
dimenticati in mezzo alla parete.

 
Di Carvelli (del 17/10/2007 @ 12:07:04, in diario, linkato 1406 volte)
 
Di Carvelli (del 16/10/2007 @ 12:28:29, in diario, linkato 1333 volte)

Mi fa notare una delle mie più presenti e attente lettrici (AA a cui va il mio sentitissimo grazie) che il tema del nuoto merita una riflessione in più. E mi suggerisce la definizione di wikipedia in effetti singolare. La riporto.

Il nuoto è il metodo con cui gli esseri umani (o altri animali) si muovono nell'acqua. Il nuoto è una popolare attività ricreativa, in special modo nei paesi caldi e in aree dotate di corsi d'acqua naturali. Il nuoto è anche uno sport competitivo. Il nuoto porta diversi benefici per la salute.

Non conosco bene gli altri animali e fatico anche a riconoscere gli animali-uomini-donne (che siano). D'altronde fra un po' rivado a vorticare nell'acqua...e ci vado con questa consapevolezza enciclopedica in più. Il dubbio è: ma delle volte, visto da fuori (spero non visto da dentro l'acqua, dai compagni di corsia) mi domando...ma delle volte appaio come un villeggiante nella piscina di un grande hotel vacanziero? E se fosse? La definizione dice "muoversi nell'acqua" d'altronde.

 
Di Carvelli (del 15/10/2007 @ 14:35:02, in diario, linkato 783 volte)

Dunque. La domanda è andarlo a  vedere oppure no? (Scrivo di Angel di Ozon) La risposta è "Andare". La domanda è: è un film in costume? La risposta è "no" (nonostante i costumi). La domanda è: ti è piaciuto? La risposta è: Doveva piacermi? Era lì per quello? E la controrisposta è "no". Ricominciamo. Ozon è uno dei registi più geniali (e giovani) di questa ultima geenrazione. Un regista che pensa in grande (in un Paese che lo aiuta a farlo). Nessuna opera è uguale all'altra e stranamente i film si succedono senza una continuità apparente. Avevamo appena liquidato una (bellissima) storia di morte annunciata (ma è uscito? forse no: io lo vidi in una rassegna dedicata a Ozon), una storia tragica, dispoerata e ora ecco una nuova disperazione ma melò. Era tempo che auspicavo le retroproiezioni e da chi potevamo aspettarcele? Ma da lui, è chiaro. Io il film lo andrei a vedere, assicurandomi ad una poltrona comoda e fugando tutte le lusinghe della fuga. Affrontando un primo tempo irritante (che vuole irritare) e lezioso (vuole esserlo) verso un secondo tragico (nella più classica delle tradizioni-definizioni del genere). Incredibile la grande facilità con cui Ozon pensa e realizza i film, pensando difficile e realizzando facile. Non ho ancora detto dei contenuti/temi. In breve: storia d'amore (amore?????? e soprattutto: storia?????) e vita sognata (in realtà immaginata) vs. vita realizzata (in ultimo reale).  Dunque? Siamo in attesa di un cartone animato. Tragico.

 
Di Carvelli (del 15/10/2007 @ 12:13:25, in diario, linkato 778 volte)
 
Di Carvelli (del 15/10/2007 @ 10:16:57, in diario, linkato 754 volte)
Vasche e Petrarca. La mia vita come una bracciata nel vuoto di una piscina di sabato nell'ora del pranzo. Manate nell'acqua, tra le lettere del nostro grande poeta e il cloro. Anche le parole di Petrarca non se ne vanno come l'odore della piscina nel costume pure se sciacquo con cura.Leggere e nuotare come uno stesso mare. Ogni cosa si fa vuota. Ogni persona si fa nulla. Il tempo sprecato e quello utile al nulla - unica speranza di pienezza vera.
 
Di Carvelli (del 12/10/2007 @ 11:49:49, in diario, linkato 804 volte)
 
Di Carvelli (del 11/10/2007 @ 14:28:26, in diario, linkato 789 volte)
La signora - più vasche di me - ora sta quasi a trenta. "A trenta esco dice". Che non si chiede l'età a una donna sì. E' così. Ma lei la dice. E' lei a dirla. Fa una mano di cinque dita complete e poi una di due dita. E ancora una mano e tre dita dell'altra. "78!?" faccio io incredulo. "Sì" fa lei "scusa ma devo uscire e c'è il marito che è venuta a prenderla". Si fanno un cenno e vanno. Lui fuori. Lei nello spogliatoio.
 
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