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 LondonLetto... di Carvelli
 
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"Ho vissuto solo così a lungo che tutto quello che mi circonda è personale, privato. Non mi meraviglierei se non ci fosse più nessuno in grado di capire quel che dico". "Io ti capirò," disse con tenerezza. "Dammi solo un po' di tempo... e capirò tutto quello che dirai." Si strinse nelle spalle. "Ho anch'io un mio modo personale di scherzare..." "Da oggi in avanti..." dissi, "uniremo di nuovo i nostri codici privati e ricostruiremo un'intimità a due". "Sarà molto carino," disse. "Ancora uno stato a due," dissi. "Sì," disse.

Kurt Vonnegut
"
 
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 25/08/2009 @ 08:35:15, in diario, linkato 989 volte)
Batto il tempo. Cerco un ritmo mio. Qualcosa di semplice. Qualcosa che si possa ballare. Un passo facile che un altro può imparare, che posso insegnare. Batto un dumdum per tutti. Chi adesso pensa di non farcela, chi crede che sia ormai tardi. In fondo lo diceva pure Gandhi "Ho sempre creduto che ciò che è possibile per uno è possibile per tutti" (citazione da C.).
 
 
Di Carvelli (del 25/08/2009 @ 15:26:31, in diario, linkato 1005 volte)

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So come se ne esce. So come si fa. L'ho fatto altre volte. L'ho fatto tante volte. Anche questa volta potrei. Senza dire una parola. Senza parlare. Non è un problema. E' facile basta prendere le misure prima e un po' d'aria ogni tanto. Il resto viene da sé. Forse non il resto del resto ma del resto...

 
Di Carvelli (del 26/08/2009 @ 08:51:57, in diario, linkato 1005 volte)

Da Rumore bianco di Don De Lillo, il mio libro (in parte) dell'estate che consiglio per tutte le vostre stagioni. Cito:

"Che cosa può esserci di più inutile di un uomo che non sappia riparare un rubinetto che gocciola, più fondamentalmente inutile, più morto alla storia, ai messaggi dei suoi geni?
Non ero sicuro di non essere d'accordo".

 
Di Carvelli (del 26/08/2009 @ 12:01:37, in diario, linkato 1002 volte)
 
Di Carvelli (del 27/08/2009 @ 08:50:20, in diario, linkato 963 volte)
Di fatto ci sentiamo poco. Meglio: ci sentiamo a intervalli di quattr'anni. Spesso ci vediamo pure. Lei in continente o io all'isola. Nessun uomo è un'isola? E' la dotta citazione? In questo caso una donna è un'isola. E così se ci sentiamo è perché si pensa che uno è in isola o una è in continente. Eppure non possiamo dire di esserci dimenticati dell'uno o dell'altra. Penso anzi che ci ricorderemo sempre anche dopo. Come una pianta che magari non dà frutti per anni e poi di nuovo e a nessuno che venga in mente di tagliarla. Il turno dei nostri quattr'anni è stato rispettato ieri e non è passato inosservato al fato. Mentre ci sentivamo l'Ikea veniva sgomberata a ritmo di una voce insistente che invitata con fermezza e ritmo alle uscite. Incendio? Guasto tecnico? lasciate i carrelli e affrettatevi alle uscite...i vostri bambini sono già fuori. La mia amica che alla parola "Roma" scoppia sempre a ridere, come se fosse una barzelletta, ormai non ha più incertezze sulla follia della nostra città e non si è stupita più di tanto dello sgombero. Delle volte che c'è stata a Roma (una dietro di me in moto la ricorda costernata) l'impressione che le abbiamo lasciato noi romani è di totale incoscienza e schizofrenia. Ma non ne è turbata. Ride e basta come se fosse una malattia con gag compresa. In tutti i casi i ritmi del nostro quadriennale sentirci meritano delle riflessioni cabalistiche o quantomeno un calcolo spaventato delle probabilità che qualcosa di serio (non dico terribile no) possa accadere.
 
Di Carvelli (del 28/08/2009 @ 09:30:12, in diario, linkato 944 volte)
 
Di Carvelli (del 31/08/2009 @ 08:35:21, in diario, linkato 951 volte)
Dici un inverno di coperte, di trapunte, di termosifoni che non si scaldano. Dici un inverno come se volessi dire un tempo magico. Poi dici un tempo giusto per te (per me). Dici che scotto. Lo so già che non sono per quest'estate. Per nessuna estate sono. Sono stato. Dici verde, dici cardigan. Parli di me come se fossi un elfo che deve uscire dal bosco al momento giusto. E poi mi chiami autunno. E poi dici inverno. Eccomi.
 
Di Carvelli (del 31/08/2009 @ 14:28:42, in diario, linkato 1044 volte)
 
Di Carvelli (del 01/09/2009 @ 10:24:43, in diario, linkato 960 volte)

Trovo su NazioneIndiana e prendo in prestito

Morrissey: Psico-inchiesta sull’ultima rockstar
di Gianluca Veltri

Nel 1987 un giovane disturbato di Denver, Colorado, prese in ostaggio con le armi una stazione radiofonica locale, costringendo i conduttori a mandare in onda soltanto canzoni degli Smiths. Andò avanti per quattro ore. Un’azione di zelo ossessivo, utile a spiegare il livello di fanatismo raggiunto dai fan della band di Manchester, che viene ricordata nella “psicobiografia dell’ultima rockstar” dedicata a Morrissey, che degli Smiths fu la voce, la faccia e molto di più. Il libro di Mark Simpson dal titolo “Saint Morrissey” è edito in Italia da Arcana, proprio mentre Morrissey compie mezzo secolo. “Saint Morrissey” è un libro davvero illuminante sugli Smiths e sul loro leader. È un’inchiesta su un’anima bella e traumatizzata, un viaggio che si infila nella terra desolata della sua testa. Steven Patrick Morrissey e Johnny Marr diedero luogo alla più bella avventura musicale degli anni ’80, quella degli Smiths. Che, se senti solo loro, potresti farti un’idea di quel decennio un tantino fuorviante. Morrissey scriveva le parole, Marr le musiche. Si coprivano a vicenda di amorevole genialità, di passione. Johnny, che all’inizio della storia-Smiths era appena diciottenne, compose musiche travolgenti e favolose; il cantante, catapultato direttamente sul palco dal mesto auto-esilio della sua stanzetta, mise a frutto anni di letture ostili. Trasformò la timidezza patologica in un’arma corrosiva, sottile e micidiale. Adorava Oscar Wilde, più di tutti. Durò un lustro appena. Ma nacque una di quelle alchimie che realizzano, al suo meglio, quello stupido giocattolo che chiamiamo pop. Qualcosa che, nella sua forma più riuscita, è una specie di meravigliosa malinconia masturbatoria, un sublime piangersi addosso. Ma che è anche come andare in bici coi piedi sollevati dai pedali. La magia del pop sta tutta nell’equilibrio narcotico tra felicità e tristezza, speranza e disperazione. Morrissey, definito dal New Musical Express (che lo odia) «l’artista più influente di tutti i tempi», secondo Simpson ha reinventato e pervertito gli anni Ottanta. Ha inteso gli Smiths (e poi la carriera solista) come una maniera anti-igienica e insalubre di reclamare il desiderio di bellezza, di urlare al mondo la passione, il bisogno d’amore («Tutto quello che ti chiedo è una cosa che non farai mai: potresti abbracciarmi?») e il suo malanimo («Stai attento. Porto più rancore io dei solitari giudici d’alta corte»). Nel primo quarto della sua vita, Steven Patrick ha avuto tutto il tempo per sentirsi, letteralmente, un mostro. Si sentiva superiore, e al contempo assai inferiore, a tutti gli altri. Stava sempre da solo. Quelli come lui, considerati imbranati, pappamolle e effeminati, erano esseri meno amati di un cucciolo abbandonato. Il loro destino più felice era diventare parrucchieri in qualche sobborgo di Londra. Viveva a Manchester. Leggeva. Non aveva amici. Odiava il mondo. Scriveva. Era infelice. La sua stanza era tappezzata da poster di James Dean. Era un ragazzo ossuto, un perdente predestinato di famiglia working class e genitori separati, senza una ragazza e senza un lavoro. Il glam e Johnny Marr gli salvarono la vita. I T-Rex di Marc Bolan, David Bowie e i New York Dolls gli accesero una lampadina: era possibile una musica fatta di ambigua eversione, di scorbutica allusività, di ribellione estetica. «Loro gli mostrarono – scrive Simpson – i regni di un mondo alternativo e ozioso, un mondo in cui quelli come lui sarebbero stati riveriti come membri della famiglia reale e non trattati come freak». Questo fece il glam. Johnny Marr spinse Steven allo scoperto, liberandolo dall’incantesimo della solitudine. Poi Steven, diventato Morrissey, porta in scena il suo lacerante desiderio per qualcosa di irraggiungibile («Voglio quello che non posso avere. E questo mi sta facendo impazzire. Lo porto scritto in faccia»), la sua visione di amore derelitto, il cinismo («la vita é semplicemente prendere senza dare»), la malizia e l’urgenza di un canto che induce molti all’infatuazione, alcuni alla follia. In breve il cantante di Manchester arriverà autoironicamente a definire se stesso come «l’ultimo dei celebri rubacuori internazionali». Le morbose indiscrezioni sulla sua sessualità, Morrissey le ha liquidate proclamandosi esponente del quarto sesso: gli astinenti. Quelli che non ne possono più né degli uomini, né delle donne, né dei gay. Quelli che non credono, tout court, nelle relazioni. «Ora il mio cuore è colmo, e non so proprio spiegarlo, perciò non ci proverò neppure». Il resto è illazione. Dice: «Non mi piace il telefono. Manca di interesse. Di solito c’è una persona all’altro capo». Morrissey è un’allitterazione dell’anima. È ostinato rifiuto a comportarsi come una rockstar, e di fare tutto quello che le altre persone sane di mente farebbero e fanno, una volta diventate postar. Pratica una forma di autoconservazione quasi patologica, di culto di sé, di nevrosi, che lo induce ad annullare concerti e interi tour, rifiutare interviste, rifiutarsi di rispondere al telefono e ai telegrammi, rifiutarsi d’essere gentile; scaricare case discografiche e manager. Maledire i giornalisti e ancor di più i suoi biografi. In realtà Morrissey, nonostante le sue colpe e il pessimo carattere, nonostante l’incapacità di socializzare alle feste, aveva l’anima più bella al mondo e Johnny Marr la seppe illuminare dal lato giusto, per cinque anni. Insieme, nota Simpson, decisero di «infliggere i loro sogni a tutti noi», infettando e rovinando a meraviglia milioni di vite. Anche rimasto da solo, dopo capitoli smithsiani irripetibili come “Hatful Of Hollow” e “The Queen Is Dead”, Moz è riuscito a raggiungere l’apice in un paio di occasioni, nella prima metà degli anni Novanta, con album come “Your Arsenal” e “Wauhxall And I”. Lì si ripete il miracolo di una musica pop rovente e evocativa, straziante e sensuale: la «malinalgìa» – la chiama Simpson con un neologismo-crasi che salda malinconia + nostalgia. Al suo apice di melodramma, la musica di Morrissey è un fascio di luce tossica che agisce da reagente nelle tue emozioni. Illumina le tue zone nere. È capace di far venire a galla il nervo scoperto. È un formidabile moltiplicatore sentimentale. Ti strugge intimamente, col suo carico di disillusione irresolubile, col racconto di un amore a cui non è stata mai data possibilità d’essere vissuto. Il senso di tempo scaduto, di perdita irrevocabile per qualcosa che nemmeno hai avuto. Uno strazio di desiderio e rimpianto, un’ubriacatura passionale e rancorosa. Morrissey porta alla luce (e al successo) il sentimento d’essere disadattati, inadatti alla vita e al mondo. Diversi. La porta d’accesso a questo sentimento è duplice: da una parte il malessere che dà il sapersi mostruosi; dall’altra la sicurezza di una perfetta «unicità» pagata a caro prezzo, ma della quale non è possibile fare a meno. Morrissey non potrebbe mai essere — non potrebbe mai rappresentare — uno di quegli ordinary boys, «nel recinto del loro mondo ordinario, nel quale si sentono così fortunati». Lui invece, è un apolide del vivere, «negato ad amare», «condannato a desiderare», di casa in nessun posto.

www.nazioneindiana.com

 

 
Di Carvelli (del 01/09/2009 @ 11:44:57, in diario, linkato 655 volte)
Non è una pozione. Neppure un'illusione. E' una magia. Una magia piccola. La sola che so fare, una che mi riesce ancora. Mi concentro e penso a un giorno, a una persona, a un luogo. E' lì che succederà. Io rimango qui. Aspetto che mi racconti cosa è successo per dire che è riuscita ancora. Era tutto previsto, dirò. Senza essere creduto. Che vita grama quella di chi crea bellezza per altri.
 
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