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 Termoli... di Carvelli
 
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Affamato e inferocito, sapevo che nulla al mondo mi avrebbe costrtto al suicidio. Proprio in quel periodo avevo cominciato a capire l'essenza del grande istinto di conservazione, la qualità dui cui l'uomo è in sommo grado dotato. Vedevo i nostri cavalli sfiancarsi e morire - non posso esprimermi in altro modo, utilizzare altre parole. I cavalli non si distinguevano in nulla dagli uomini. Morivano a causa del Nord, del lavoro troppo gravoso, del cibo cattivo, delle botte - e anche se subivano tutto ciò in misura mille volte inferiore agli esseri umani, i cavalli morivano prima. E capii la cosa più importante: che l'uomo è diventato uomo non perché è una creatura di Dio, né perché nelle mani ha quella cosa straordinaria che è il pollice. Ma perché è FISICAMENTE più forte, più resistente di tutti gli altri animali, e poi perché in seguito ha saputo costringere il proprio spirito a servire con successo il corpo.

Varlam Salamov
"
 
Di seguito gli interventi pubblicati in questa sezione, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 27/10/2011 @ 09:04:15, in diario, linkato 1217 volte)
 
Di Carvelli (del 27/10/2011 @ 14:31:38, in diario, linkato 878 volte)

Assaggi&Paesaggi su SETTE del Corriere della Sera (27 ottobre 2011):
Assaggi&Paesaggi di Roberto Carvelli. Un viaggio tra le regioni italiane per riscoprire i sapori e le eccellenze della cultura enogastronomica del nostro Paese. Insieme a citazioni, fotografie e consigli pratici: una guida da tenere sempre con sé.

 

 
Di Carvelli (del 27/10/2011 @ 14:38:21, in diario, linkato 725 volte)
 
Di Carvelli (del 27/10/2011 @ 16:36:25, in diario, linkato 782 volte)

Un po' come faceva Leopardi (fatte le debite distanze), un po' per divertimento (ma forse voi non vi divertirete).  Ho composto questo pensiero di domande. Per una mia amica non caduta da cavallo ma atterrata in un'aula d'esame. Oggi.

Cose che vorrei sapere del tuo esame
 
c'era qualcuno carino a fianco a te?
si poteva copiare?
ce l'avevi la merendina o gli spicci per comprarla?
ti sudavano i palmi?
e allora: ti sei passata le mani sui pantaloni?
a una certa domanda ti sei grattata il naso con la matita e hai guardato fuori dalla finestra?
hai girato più e più volte il foglio?
avevi fatto le prove delle penne?
scrivevano tutte?
ce l'avevi i fogliettini tutti segnati?
o avevi qualcosa scarabocchiato sui polsi che col sudore è sbiadito?
qualcuno a un certo punto vi ha detto "ora se volete potete andare in bagno"?
e tu: volevi?
qualcuno a un certo punto vi ha detto "ora se volete potete consegnare"?
e tu: volevi?
prima di consegnare hai riguardato bene cosa avevi scritto?
hai fatto caso se c'era il nome?
ti è venuto il dubbio che andasse firmata ogni pagina come dai notai?
ieri sera avevi detto una preghiera?
e stamattina?
al bar ti è venuta la tentazione di dirlo al barista che andavi a fare uno scritto?
e se l'hai fatto lui che ha detto?
per strada, in metro, sul bus prima di andare guardavi le cose in un modo diverso?
come se dovessero contenere degli strani ammonimenti o delle premonizioni?
hai pensato o detto: se avessi studiato di più?
se quella sera e quella talaltra non fossi uscita, andata al cinema eccetera?
quando sei uscita dall'esame ti sei sentita molto ma molto leggera?
e dopo non avevi una strana allegria che ti è venuta in mente la parola "effervescente"?
e un momento dopo ancora non ti sei sentita un po' annebbiata e hai pensato: ma ho scritto così o cosà?
hai mai detto "come va, va"?
ha mai detto "tanto non mi prendono"?
e dopo essere uscita hai chiamato qualcuno al telefono?
dopo, la sera, hai dormito bene?
hai ridetto una preghiera?
 
Di Carvelli (del 28/10/2011 @ 08:57:10, in diario, linkato 740 volte)
 
Di Carvelli (del 28/10/2011 @ 08:57:56, in diario, linkato 975 volte)

PER TUTTA LA NOTTE

Ho letto, ormai è un po', Per tutta la notte di Philippe Forest. Un libro che fa il paio anzi il trio con altri libri di cui ho già parlato dello stesso autore. Un libro di quel genere che io amo molto e che viene nominato di autofiction. Forest è bravo. Il libro è commovente e impudico. Come impudico è il racconto della morte.

Ho visto il film Cavalli tratto da uno dei racconti di Pugni di Grossi che ho letto. Il film è bello anche se non perfetto. Gli attori sono bravi anche se manifestano la formazione ormai consolidata cinetelevisiva (meno cine). Come un mammut che si è istinto penso a quel genere di attori tipo Volontè (ho da poco rivisto e consiglio per la sua modernità e perfezione Porte aperte di Amelio) che forse non ci saranno più. Nessun giudizio solo un'era glaciale che si è disciolta.

 
Di Carvelli (del 02/11/2011 @ 08:55:34, in diario, linkato 563 volte)
Ieri siamo andati a vedere con una mai amica This must be the place. ma ve ne voglio parlare un po' con calma. Il film mi è piaciuto? Sì. Mi ha entusiasmato? No. Griderei al capolavoro come mi è accaduto di avvertire da più parti? No. Ma Sean Penn è bravo e ci sono delle grandi trovate sceniche. Lo rivedrei? Sì. Lo consiglierei? Pure. Eppure qualcosa ogni tanto mi ha disturbato. Non so cosa - per parafrasare la battuta di Penn che tutti ripappagallavano all'uscita. Il film ha le sue furbizie, la sua scaltrezza. E questo forse ogni tanto mi ha messo sull'avviso. Insomma vi lascio un po' in broda. E anzi mi aspetto un po' di contraddittorio. E prometto...to be continued.
 
Di Carvelli (del 02/11/2011 @ 09:00:46, in diario, linkato 574 volte)
 
Di Carvelli (del 03/11/2011 @ 12:45:25, in diario, linkato 1404 volte)

Qualche tempo fa il culto o, meglio, l’allure di Sherwood Anderson serpeggiava tra gli appassionati in una forma catatonica. I più fortunati riuscivano ad accaparrarsi sparute copie sulle bancarelle e ne andavano fieri a dispetto dei tanti che lo cercavano senza requie. Si trattava soprattutto del più noto I racconti dell’Ohio da anni inedito. Un mio amico di ritorno da Napoli mi garantì che ne avrei trovato un esemplare alla libreria Guida proprio al fianco della pasticceria Scaturchio. Non dico che ci andai a posta ma, appena fui a Napoli, non mancai di farci un salto infruttuoso. Qualcosa ha voluto che quest’anno le cose cambiassero e quel libro ha rivisto la luce con il titolo originale di Winesburg, Ohio (Einaudi), garante il cultore Vinicio Capossela che all’epopea del libro ha persino dedicato una canzone oltre a esserne da tempi non sospetti il padrino.

Ora Nobel, collana barra casa editrice (diretta da Marco Innocenti) del Consorzio Milonga, ridà alle stampe Poor white, un testo del 1920. La traduzione è di Eugenio Ponzilli. La coincidenza vuole che mentre lo sto leggendo ne trovo fuoritempo l’antico precedente einaudiano su un tavolo di mercatino: vecchia edizione con copertina in cartoncino sbruzzoloso e un paesaggio pastello a presentarlo. Poi dici il caso! La Nobel – in una grafica dallo stile seventies – strilla in copertina la frase del “piccolo-grande” scrittore svizzero Peter Bichsel  - “Il padre della letteratura americana moderna” - che compete in autorità con la sponsorizzazione più pop del cantautore italiano. Un povero bianco è un testo corale che racconta le vicende di Hugh Mc Vey, inventore partito dal nulla per realizzare il grande sogno americano, e Clara Butterworth. E sono quelle dedicate a quest’ultimo personaggio le pagine, a mio avviso, più belle del libro. I due si muovono in parallelo in mezzo alle pianure che circondano Bidwell e le sue strade tra ansie matrimoniali e inventività. Attorno a loro pullulano personaggi minori che hanno la forza di un contraltare singolo e collettivo che ne fa la riuscita narrazione del secondo piano e dello sfondo unico che contrasta e amplifica la vicenda dei protagonisti. E’ come se leggessimo insieme dei caratteri mai cameo e insieme una cornice umana generale che si salda al racconto del luogo. Personaggi-luogo e personaggi universali allo stesso tempo.  Per una logica latente il povero bianco Hugh e la “chiacchierata” Clara scontano invidia e ammirazione della loro città senza potersi difendere se non essendo quello che sono: un geniale e pervicace out land hero e una fascinosa e illuminata anticonformista in tempi e territori del perbenismo un po’ vacuo. Due posizioni scomode per una cittadina non disposta alla tolleranza e all’apprezzamento della diversità se non in una forma cinicamente meravigliata e screditante.

Scrive Anderson di Clara: “Aveva la sensazione di essere più vecchia e più saggia di tutti gli uomini che conosceva. Aveva stabilito, come in definitiva fanno molte donne, che ci sono due tipi di uomini al mondo: quelli che sono dei bambini miti, buoni e ben intenzionati, e quelli che, pur rimanendo bambini, sono ossessionati da una stupida vanità maschile e pensano di essere venuti al mondo solo per essere i padroni della vita”. Clara pensa che “si dovrebbe riuscire a trovare in qualche posto un uomo che rispetti se stesso e i suoi desideri, ma che sia anche in grado di capire anche i desideri e i timori di una donna”. Che la ragazza finisca per rimanere sovente delusa è nei fatti. Come quando intermedia l’amore tutto interno e virtuale di Alfred Buckley che si dichiara per lettera e poi passa spesso a trovare il padre di lei senza esplicitare tutto il suo desiderio. Così “Clara rimaneva sola in compagnia dell’uomo che aveva dichiarato di volerla sposare ma che, ne era convinta, non desiderava nulla del genere nel suo profondo”. In conclusione il mondo di Anderson pullula di personaggi che non sono in contatto con se stessi e si muovono nella vita come mossi da un’ansia di successo vuota. Quella che li spinge al contempo alla febbre industriale e all’affanno verso un’unione sentimentale.

Lo scrittore americano non sceglie mai la via facile del parteggiare per i suoi eroi incompresi. Persino l’ammirazione di Bidwell per Hugh o il desiderio malizioso verso Clara non ci sono mai consegnati come un portato a segno unico. Tale ambiguità fa di Poor white un romanzo non semplicistico anche se la lettura è sempre premiata da uno stile coinvolgente. La ricchezza del libro è data proprio dalla capacità di osservazione ravvicinata e dal racconto dall’alto della vicenda. Ancora Un povero bianco: “All’interno dell’invisibile cerchio e sotto il grande tetto ogni persona conosceva il proprio vicino e da lui era conosciuto. Gli stranieri non si muovevano veloci e misteriosi e non c’era quel continuo e assordante rumore di macchine e nuovi progetti in azione. Sembrava che l’umanità fosse disposta a prendersi un tempo per conoscere se stessa”. Anderson si fa cantore della versione embrionale e in scala minore del sogno americano. Lo rappresenta dove è davvero piccolo e per questo più grande e vero. Lì dove la storia non l’ha ancora eternato e forse mai lo farà.

 
Di Carvelli (del 03/11/2011 @ 17:02:16, in diario, linkato 623 volte)
 
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