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Scrivere sul disargine occidentale (da Trilobiti)
Di Carvelli (del 26/03/2008 @ 08:43:24, in diario, linkato 988 volte)

Naturalmente ci sono altre cose interessanti ma intanto mi piace segnalarvi questa intervista da una nuova rivista, al suo terzo numero, TRILOBITI. Di seguito l'emblematica storia di Valentina Brunettin (già Campiello giovani)

www.trilobiti.it/meteoriti/brunettin-campiello.html

Perché un Campiello è sempre un Campiello
Federica De Maria (a cura di) | 25-03-2008 | ITA
“Ho voglia di scrivere da morire”, confessa Valentina Brunettin. A 17 anni vince il premio Campiello Giovani. A 27 si scopre desiderosa di ricominciare. Storia di una cultura che “consuma” talenti troppo in fretta.

Valentina Brunettin, ma tu, chi sei? Raccontati.
Ho 27 anni, una laurea in Lingue e Letterature Straniere, uno stipendio in un ufficio legale udinese e una grande voglia di tornare a scrivere decentemente e di produrre qualcosa di interessante. Anche senza essere pubblicata.

Ma tu, chi sei stata? Ricordati.
Mi cimento in questo atto di rullamento del mio passato para-artistico come segue…
Ho iniziato a scrivere a 13 anni e, lo ammetto, nonostante i miei buoni propositi, mi sono ritrovata a buttare giù pezzetti di romanzi e racconti, mai terminati, il cui centro era sempre una bella storia d’amore gay. Ho cominciato a preoccuparmi quando, giocando con la Barbie, mi piaceva inventare storie dove Ken biondo e Ken moro (perché ne avevo due!) si mettevano a dormire insieme a Barbie che – sedotta e abbandonata dal più bisex dei due – andava ad abortire in gran segreto o partoriva (sempre in gran segreto) assistita dal suo miglior amico Big Jim (rubato al corredo di giocattoli di mio fratello).
Alla fine, dal teatro delle bambole sono passata alle parole scritte. Pensa che il mio primo racconto con inizio e fine (ormai cestinato) si chiamava “Misha nel buco della serratura” ed era un racconto dichiaratamente gay. Ovviamente la mia famiglia aveva intuito questa mia passione, ma pensavano tutti che scrivessi stile Moccia: amori, amorazzi, bacini.
Poi, a 17 anni, arriva il bando di concorso del premio Campiello Giovani. Mando L’antibo e per un soffio non supero il limite di pagine imposto. E a settembre mi ritrovo alla finalissima con altri quattro ragazzi.
Di quel weekend veneziano ricordo l’emozione e l’allegria e il piglio da finti intellettuali che ci caratterizzava un po’ tutti. Ci sentivamo veri scrittori, e l’età media era 16 anni.
Al mattino vengo nominata vincitrice nazionale. Mia madre per poco non sviene, io scivolo sul marciapiede davanti a venti fotografi sorridenti e poi per l’emozione della vittoria praticamente smetto di mangiare fino a sera.
Poi la diretta (in seguito differita) su RaiUno, il ritiro della targa vittoriosa e l’abbraccio di Nancy Brilli, piccola ma carina.
Grande cena a Palazzo Ducale e affollamento al banchetto-catering. Alla fine mi ritrovo nel piatto, dopo dura lotta, un po’ di polenta e una pallina di gelato. Di più non si riusciva a ottenere.
Una settimana dopo la vittoria, la Marsilio mi chiama e mi dice che L’antibo può uscire dall’antologica storia del Campiello Giovani e andare avanti da solo. Lo estrapolano, lo stampano e inizia un po’ di promozione, ma veramente minima (d’altronde non era possibile fare di più).

Ma tu, come ti sentivi? Confidati.
Ero davvero entusiasta di quello che stava capitando. Tuttavia ero spesso in imbarazzo di fronte al pubblico di quella o quell’altra conferenza perché il miniromanzo parlava della storia d’amore tra uno studente e un professore di filosofia. Il romanzino non è granché, o meglio, lo ritenevo anch’io notevole per una ragazzina, ma alla fine lo stile iperbarocco faceva sbadigliare anche me, quando scorrevo un paio di pagine.
Due anni dopo la Marsilio mi richiama e mi invita nella sede editoriale.
X. mi riceve con un sigaro e la sua prima domanda è:
“Signorina, ma lei, che cosa vuol fare da grande?”
“Bhé, non saprei… laurearmi… fare l’insegnante… ”
“Ma nooo. Intendevo nel campo della letteratura… ”
Insomma, aveva fiducia in me e nonostante le poco entusiastiche vendite del piccolo Antibo, mi dice che vuole darmi un’altra possibilità. Io avevo appena iniziato Fuoco su Babilonia e lui mi chiede di inviargli le prime dieci pagine. Da lì avrebbe deciso: se sì, quella era la mia ultima occasione, perché non poteva andare in perdita a causa di un sesto senso errato.
Le prime dieci pagine andarono bene. Ci fu un anno intero di lavoro. Io scrivevo, inviavo, la correttrice sistemava. Alla fine fu necessario un taglio di 100 pagine. Di cui non mi sono mai pentita, anzi. Ne venne fuori comunque un tomo, ma la tematica “storia d’amore gay + sterminio nazista” mi sembrava molto accattivante. E poi io letteralmente adoravo i personaggi e li ho vissuti per due anni con una tale intensità che alla fine nell’immaginazione ne sentivo le voci, vedevo le espressioni… tutto. Finire Fuoco è stato come condannare a morte la mia fantasia che, devo ammetterlo, a tutt’oggi non ha mai galoppato così tanto come in quel periodo.

Ma tu, che pensavi? Dillo.
Vabbé, la pubblicazione è stata fortunata, coincideva con la prima edizione di PordenoneLegge. Oltre a un mio love-affair con Y., ci ho guadagnato un po’ di visibilità. Ogni mese la casa editrice mi inviava recensioni e articoli, mi fissava appuntamenti e premiazioni (p.s. la gran parte dei premi letterari è pilotata…) Qualche critico voleva spellarmi e mettermi sotto sale e limone, altri mi volevano già bene.
Ma il problema era rendere accettabile il tema dell’omosessualità maschile, anche se alla fine ho compreso che l’ostacolo maggiore, forse, non era quello, ma il mio stile. Troppo prolisso e ridondante.

Ma tu, perché hai pubblicato? Incoraggiati.
La meraviglia dell’essere pubblicati, per uno scrittore, non è il senso di sazietà egocentrica che dà e tanto meno la possibilità di entrare in contatto con mondi/persone un tempo preclusi. Secondo me vedere la propria opera pubblicata significa darle una forma e collocarla nel tempo-spazio. Uno scrittore si sente come se avesse lasciato una traccia e poco importa se vende o non vende. C’è qualcosa che, dal momento della stampa in poi, segna la tua presenza.
Ovviamente il romanzo ha venduto poco e non è stato il successone che alla Marsilio prevedevano. Ergo, X. si è rintanato in un distinto silenzio da cui è uscito due anni fa con una telefonata impiegatizia per chiedermi se volevo acquistare le copie rimaste oppure optare per il macero. “La seconda che hai detto”, risposi, stile Guzzanti.
Un libro che vende poco e uno scrittore che di conseguenza “si vede” poco hanno un solo destino: sparire. Ciao articoli di giornale su commissione, ciao recensioni, ciao conferenze. Il circo allegro e vagamente vip ti dà un calcio nel sedere e così sia.
Sono tornata alla mia vita normale e tuttavia la mia passione, la scrittura, ha risentito del retrogusto amaro della vicenda. Sarei un’ipocrita dicendo che tutto è tornato come prima perché non è così. La voglia, le idee, lo spirito di scrivere barcollano, quindi ho preferito studiare, laurearmi [ndr. Con 110 e lode, nemmeno un mese fuori corso, voto minimo sul libretto? 30/30], cambiare ottocento lavori e alla fine ritrovarmi a fare l’impiegata full optional.

Ma tu, che cosa hai scritto? Addentrati.
L’antibo, dunque. Bo ha 16 anni, è di origine americana e ha serie difficoltà a studiare. In biblioteca incontra Adriano, un professore di filosofia che gli dà una mano, diventa suo amico, amico particolare. La storia si intreccia passo per passo con quella dell’imperatore Adriano e di Antinoo. Alla fine il secondo si suicida come realmente (pare) accadde, Bo invece ci ripensa ed esce più o meno intero dal suo stato depressivo-malinconico da adolescente. Ed esce anche dalla vita di Adriano dopo un outing con la famiglia.
In Fuoco su Babilonia, Spiegel “lavora” in un postribolo per uomini insieme con alcuni suoi amici. Siamo nella Germania nazista. Per una soffiata, il postribolo viene scoperto e sfasciato, con conseguente arresto di tutti e deportazione di Spiegel e Tizian (suo collega e migliore amico) in un campo di concentramento Lì, fra molte sfortune, Spiegel viene scelto per i suoi modi gentili come cameriere di un ufficiale SS. I due diventano amanti, consumano sesso fino allo spasmo. Poi il campo viene liberato. Il nazista scappa e Spiegel, a pezzi per le sofferenze e l’amore, ritorna in città con il suo amico Tizian. Lì, tra bombardamenti e miseria, si fidanza con un medico pur non amandolo così appassionatamente. La storia fra i due va avanti finché, per circostanze quasi casuali, Spiegel riuscirà a incontrare di nuovo l’ufficiale nazista, poco prima che questo affronti il processo e la probabile esecuzione.

Ma tu, sei in o out? Lamentati.
Se penso alla reperibilità dei miei romanzi, non posso lamentarmi. Ci sono esordienti che sono stati pubblicati a pagamento da case editrici poi dissolte nel nulla; aspiranti artisti che hanno prodotto cento copie presso un editore parrocchiale; giovani romanzieri che aspettano una risposta da sei anni.
Io ho trovato una buona casa editrice, non mi ha pagato ma non mi ha nemmeno spennato, e ha tentato la promozione dei miei libri come poteva.
Sono contenta, sinceramente non mi sento di accusare nessuno e, per quanto con tono dolceamaro, mi ritengo fortunata di aver provato l’ebbrezza di venir chiamata “scrittrice” a 18 anni.

Ma tu, che cosa sai? Svelaci.
Mi sembra che attualmente il mondo della letteratura italiana funzioni più o meno così: gli scrittori sono tutti una famiglia allargata, si amano e si odiano, ma alla fine nelle occasioni importanti sono tutti uniti. Chi ti fa la recensione giusta è un tuo amico, un giorno dovrai ricambiargli il favore. Chi ti ospita alla Fiera del Libro è un tuo conoscente, un giorno dovrai combinargli un incontro con il Papa. È così, ma non è poi così scioccante come sembra.
Perché io mi sono presa questa randellata stile Britney Spears della letteratura? Beh, perché l’editoria è commercio, non arte. E perché ci sono mezzipersonesistemi per poter guadagnarsi una nicchia nella lobby degli scrittori riconosciuti che io non ho saputo accogliere.

Ma tu, chi sarai? Anticipati.
Non mi rimane che fare l’impiegata, comprarmi un etto di stracchino alla settimana e farmi fare la French manicure per consolarmi. In realtà faccio tutto quello che credo facciano gli scrittori decaduti: trascurando i più (s)fortunati che si convertono in opinionisti o manager di profilo artistico, lavoro per vivere e ogni tanto produco qualche testo, magari lo invio a un concorso letterario rintracciato chissà-dove nella speranza di vincere un assegno, una pubblicazione anche antologica, una targa in Silver Plate o un weekend in una malga con tomino in omaggio.

Ma tu, stai scrivendo? Promuoviti.
Ultimamente ho scritto un racconto segnalato sul sito del concorso Frontiere-Grenzen. In genere, in questi ultimi tempi, mi dedico ai racconti brevi. Cinque di questi li ho collezionati in una mini-raccolta che provvisoriamente si chiama “Non mettere le dita nel naso”. Il primo racconto narra la storia di uno stupro, il secondo è la storia triste di un’attrice pornografica frigida; il terzo è lo scandalo gay in una boy band stile ‘Backstreet Boys”; il quarto è la vita di un transessuale; il quinto narra un episodio di violenza sessuale su una ragazzina di 13 anni, ambientato, scritto e pensato nel sistema dei ragazzini di oggi.

Ma tu, ci credi ancora? Globalizzati.
È un mondo difficile per noi miseri scrittori dimenticati da Dio, dagli editori e dai lettori.
Però io, una soluzione l’ho trovata. Se mai nella vita mi dovesse capitare di ripubblicare qualcosa di mio (ora ho abbandonato il tema gay perché lo sentivo un po’ esausto; mi getto sull’autobiografico e sull’erotismo sofferente), col piffero che vado alla Fiera del Libro o al Festival di Mantova: la mia strategia sarà pubblicare in allegato al romanzo un bel calendario. Il mio calendario…

Perbacco, lo prometti?
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