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L'ultimo Che ci faccio qui?
Di Carvelli (del 20/01/2012 @ 12:11:47, in diario, linkato 806 volte)

E vissero felici e disgiunti
di Roberto Carvelli

Ogni volta che ci passo davanti quando è domenica mattina o una qualsiasi sera penso a tutti quelli che varcheranno il giorno dopo questo portone in procinto di decisioni definitive, carichi di attese interminabili. Penso in particolare alle coppie. A tutti quegli ex-mariti o mogli che passeranno attraverso questo arco per concludere per legge quel che avevano iniziato per scelta e passione. Mi immagino tutto il bagaglio d’amore e disamore messo insieme negli anni che dopo averlo aperto e riaperto all’infinito domani finirà chiuso per legge. Ma penso pure a quante altre volte soli o in compagnia ricreeranno il loro immaginario processo fuori da queste aule di viale Giulio Cesare 54 b. E sorrido al fatto che la via ove ha sede il tribunale sia stata intitolata a un grande stratega-guerriero. Lo sapranno che tutto quello che domani succederà in una delle infinite salette di questo palazzo chiuderà solo una parte – tutto sommato anche la meno ingombrante – di questo bagaglio di gravità? E mi rispondo di sì, che lo sanno. E a saperlo sono in tanti. Separazioni e divorzi sono sempre più comuni. “Quel che dio ha unito...”: non finisce più come una volta la formula dell’inseparabilità coniugale. Ne sa qualcosa l’avvocato romano Maria Luisa Missiaggia con studio in via Veneto nel cuore della ex Dolce Vita. Ho chiesto a lei se crede che sarà dolce la vita di chi si lascia? Lei crede di sì se... “Se, come cerco di comunicare noi tecnici avvocati supportati da psicologi sociologi forniamo sempre più tecniche alternative al conflitto invitando la gente ad iniziare un percorso conciliativo, le persone smettono di vedere la separazione come la panacea dei mali considerandola un’occasione per rendere la propria vita di relazione più soddisfacente magari con un partner che la riconosca e la faccia sentire bene. La separazione deve essere il punto di arrivo non il punto di partenza di una coppia che ha deciso di dividersi. Facciamo corsi per tutto ma non ci educano ad andare d’accordo o a comunicare le nostre richieste in modo costruttivo. Tutto è frutto di un’esperienza di cui siamo carenti. Possiamo imparare a stare insieme come coppia e poi come genitori come se fosse un mestiere. Un concetto che non abbiamo più – che va insegnato ed imparato nella pratica”. Avevo conosciuto la Missiaggia nella preparazione del mio libro Amarsi a Roma. Le chiedevo se, per deformazione personale sua, fosse consequenziale immaginarsi una fase B del mio libro, “separarsi a Roma”, e abbiamo discusso di come e dove. “La cosa più macroscopica che sto riscontrando” mi aveva raccontato “è che la grande crisi economica spinge la gente a pensarci sopra un po’ prima di imbarcarsi nella disavventura di dover cercare due case, pensare al mantenimento e seguito. È per questo che io invito a intraprendere la strada della conciliazione, del concludere accordi e, se proprio la devo dire tutta, sono una fautrice dei contratti prematrimoniali e, per estremo, anche del matrimonio a tempo determinato salvo disdetta, che è un istituto presente in Olanda con la durata di due anni e invece assolutamente nullo in Italia. Non credo che depotenzino il sentimento forme di accordo, anzi lo amplificano. È più facile accordarsi in tempo di pace quando ci si ama che in tempo di guerra quando ci si vorrebbe eliminare a vicenda. Servono vie per la responsabilizzazione e non è da escludere che, in definitiva, sia una mancanza di cultura dello stare insieme quella che porta al separarsi. La gente si autoconvince di non stare bene e non accetta il cambiamento dell’altro quando non coincide con il proprio. È un fatto scientifico: la passione dura sette mesi, la serotonina scende e ci si vede per quello che si è. Se l’amore che stordisce finisce, e non c’è un valore dietro lo stare insieme, tutto muore”. Ripenso nel piccolo alla mia storia. A come sono arrivato a 44 anni scansando le scelte definitive, la paternità, la comunione dei beni. Mi domando se in fondo non sia nato tutto dalla paura di varcare quel portone di viale Giulio Cesare. Se sia stato incoraggiato dalla paura omologa di chi con me divideva il peso di quelle scelte. Un po’ razionalmente mi dico che forse se quel che poteva succedere non è successo non doveva succedere. Ma è un gioco del destino un po’ lasco. Mi dico che, in fondo, siamo sempre noi che scegliamo di scegliere e anche di non scegliere. Certo c’è un fatto generazionale: la convinzione politica o civile che non sia il contratto matrimoniale a garantire la felicità che magari non abbiamo visto trionfare nelle coppie che conoscevamo. Ma mi domando quanto questa cautela un po’ cinica abbia contraffatto la necessaria cecità che il fidarsi mette in gioco e quanto, quindi, il nostro (non) scegliere sia il frutto di una moda, di un’epoca. Metto insieme una casistica più felice, quella dei compagni duraturi, quelli che hanno retto negli anni gli scossoni e mi sembra di pensare che la loro resistenza sia fatta di grande tolleranza e, in molti casi, di un po’ di riusciti meccanismi apotropaici personali per vincere il rischio della fine. Lascio questa parte del quartiere Prati con il dispiacere di quelli che domani saranno lì dentro per mettere un punto definitivo alla loro storia fatta di passeggiate, coni gelati, pacchetti da scartare, finesettimana in Umbria, album o VHS del matrimonio, ricordi del viaggio di nozze ai Caraibi. Penso a quanti verrano a contaminarsi nell’aria marziale che questa parte di Roma conserva come un sacrificio necessario alla città e di quanto questo sacrificio possa averla resa una brutta foto dell’album immaginario dei nostri ricordi.
http://www.paesesera.it/Societa/E-vissero-felici-e-disgiunti