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A proposito di film (Nick Cave)
Di Carvelli (del 15/03/2005 @ 15:14:02, in diario, linkato 1162 volte)

 

N i c k C a v e
Lacrime per Sokurov

Un amico mi invita a vedere l’anteprima di un film russo a Soho. Gli chiedo che genere di roba era e lui dice: "Be’, non succede niente di particolare e poi qualcuno muore. Vieni. Lo adorerai." Il mio amico è il distributore del film in Inghilterra, per cui mi sento in dovere di andarci. Starsene seduti davanti a un film russo è il tipo di cosa che si fa per gli amici. Arrivo in ritardo e mi faccio strada fino alla prima fila mentre finiscono i titoli di testa. Dopo dieci minuti attacco a piangere in silenzio e vado avanti così per tutti i 73 minuti del film. Ora, ho pianto altre volte al cinema, ma non ricordo di avere mai pianto così tanto, senza fermarmi, per tutto un film. Quando il film finisce e le luci si accendono una donna con gli occhi rossi seduta dietro di me mi allunga un Kleenex e mi chiede se mi andrebbe di scrivere di questo film per una rivista.

Il film si intitola Madre e figlio e la regia è di Aleksandr Sokurov. Racconta gli ultimi giorni di una madre morente (Gudrun Geyer) e del suo figlio adulto (Alexei Anaishnov). È mattina. La madre vuole che il figlio la porti a fare un giro, il che significa trascinarsela dietro attraverso una serie di paesaggi onirici, dopodiché – tornati alla loro casa nuda e isolata – lui le dà da mangiare e la mette a letto. Poi esce di casa per fare una passeggiata da solo e quando torna scopre che la madre è morta. Tutto questo dura 76 minuti. Ma ciò di cui siamo testimoni in questo lasso di tempo è di tale bellezza e tristezza che piangere, per me, è l’unica reazione adeguata.

Madre e figlio è un film sulla Morte e sull’Amore e sulla Grazia. L’amore tra questa madre e il figlio trascende l’amore ordinario, perché è purificato dall’imminenza della morte. La morte li attende entrambi con assoluta certezza: la madre che morirà e il figlio che verrà lasciato solo. Il tempo parrebbe avere rispettosamente rallentato, in modo che l’accorto passo dell’amore possa distendersi tranquillamente: non vi sono azioni frettolose, perché servirebbero solo a far giungere più velocemente la morte. I personaggi hanno raggiunto uno stato di grazia emotiva e spirituale. Sembrano slegati dalla propria storia, alieni al proprio ambiente e indifferenti al mondo alle loro spalle. Esistono solo gesti di conforto, d’attenzione, di tenerezza. Il figlio pettina la madre, le rimbocca le coperte, la nutre con un biberon. La madre risponde con buffetti e carezze, tutto ciò che le sue deboli forze le consentono.

È una relazione che, in un certo senso, non dovrebbe essere vista. È sacra, religiosa, scevra da ogni pruriginosa intrusione dell’analisi novecentesca. È una visione d’umanità che si è fatta di fatto trascendente; ma Sokurov non tiene sermoni sulla natura tragica della morte. La morte incombe pesantemente su tutto, intristisce ogni gesto, appesantisce ogni azione. Anche il paesaggio sembra essere in lutto per l’immanente dipartita della madre. Quella che vediamo è la Passione mostrata in tableaux che a volte riflettono la storia di Cristo: non la passione della madre malata, ma quella del figlio, non del morente ma di chi viene abbandonato. I dialoghi sono stranamente ineffabili, come se l’amore e la comprensione dei protagonisti avessero reso inutile il linguaggio. Quando conversano, le loro parole sembrano mancare di uno scopo qualsiasi. Non confortano, non chiariscono, perché tutto viene detto nella sapienza di ogni gesto. C’è psicologia nelle parole, c’è complicazione e dolore. L’esempio migliore è quello dell’ultima conversazione, in cui discutono le ragioni per morire e quelle per vivere. Il dialogo è futile e crudele, e serve solo a riaprire le ferite della perdita.

La madre dice: "È così triste. Comunque vadano le cose, anche tu dovrai passare attraverso le sofferenze che ho subito io."

"Adesso dormi, mamma" dice il figlio. "Fatti un sonnellino. Io torno presto."

Il figlio esce di casa e cammina nel paesaggio astratto che la circonda. È in queste scene lunghe, lente, pressoché immobili che il film raggiunge un livello di bellezza mozzafiato. I paesaggi di Sokurov non portano il fardello di alcuna pretesa realistica. Le sue scene sono trasformate in tele cinematografiche, molto più vicine alla pittura che al cinema e inondate da una luce artificiale e opalescente. Queste visioni oniriche ricordano le opere dei pittori romantici tedeschi del primo Ottocento, in particolare quelle di Caspar David Friedrich, in cui tutto è ammorbidito da una lucentezza lattiginosa. L’ampiezza e il mistero di questa natura accresciuta crea una spiritualità indipendente da qualsiasi formula della tradizione cristiana. E la cura che Sokurov pone nella realizzazione di queste scene fastidiosamente lavorate echeggia la cura con cui i suoi personaggi si trattano l’un l’altro, la devozione al dettaglio, la tranquilla tenerezza, l’amore.

A tutta questa bellezza è assegnato un ritmo, una scansione temporale dettata dall’intrusione della morte. Ogni azione, ogni gesto – lento, dolente, importante, sacro – concede allo spettatore il tempo di restare incantato e sedotto dai suoi potenti e serissimi impulsi. Assistendo a questo film siamo costretti a confrontarci con l’ineluttabilità della nostra morte, e di quella altrui. Vengono risvegliate dentro di noi delle emozioni che il cinema ha trascurato a lungo.

La mia prima reazione al film è stata di scoppiare a piangere per la tristezza di tutto questo. E quella sensazione – da allora – non l’ho più dimenticata.

Nick Cave, tenebrosa rockstar austroberlinese di stanza a Londra e con le radici affondate nel blues del Mississippi, racconta Madre e figlio di Aleksandr Sokurov.

Nick Cave, dark crooner with his roots in the Mississippi blues, writes about a viewing of Mother and Son by Aleksandr Sokurov in Soho.

© Nick Cave

da www.trax.it

E mi è venuta voglia di vederlo. Ne sapete qualcosa di questo film?