Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 03/12/2012 @ 09:13:05, in diario, linkato 1002 volte)
La domenica specialmente quando non c'è nessuno in casa e siamo là verso la fine di giugno, vado fuori sul terrazzo per stare a sentire che al di là dei muri la città sta zitta.
Se tu dici "sombrero" io non penso al Messico, come dovrei. Né a un gelato, se esiste. A una rivoluzione, come in fondo mi piacerebbe. Se tu dici "sombrero" io conto il numero delle dita. Iniziando dalle mani. E poi continuando con i piedi. E mi ritrovo bambino, in un letto da cui non vorrei scendere. Il letto di un bambino è alto - lo è per un po' e più di quel che sembrerebbe a guardarlo da adesso - ed è difficile venirne fuori. Specie d'inverno. Soprattutto di domenica. Ma dipende dalla scuola, dalle pagelle, dai genitori. Se tu dici "sombrero" io vedo quelle dita piccole, quella pelle bianca che un calzino ha rivelato all'improvviso in tutto il suo candore tiepido. Ecco: "sombrero" è la parola delle dita, dell'infanzia, di oggi.
“Ah, se la gente cominciasse a bruciare le staccionate e lasciasse vivere le foreste! Ho visto staccionate a metà distrutte, con le estremità disperse nella prateria, e un qualche miserabile avaro verificare con un agrimensore i propri confini, mentre il cielo viveva ovunque intorno a lui, ed egli non vedeva gli angeli volteggiare, ma cercava un vecchio buco per piantare un palo in mezzo al paradiso. Guardai ancora, e vidi l’uomo ritto nel mezzo di una palude infernale, assediato da demoni, e aveva di certo trovato i propri confini, tre piccole pietre con un palo rizzato al centro, e guardando più attentamente vidi che l’agrimensore era il Principe delle Tenebre.” (“Camminare” di H.D. Thoreau).
Poi decideremo cosa farci dei calcinacci che rimangono. Per ora li mettiamo in delle buste con la tentazione di ritirare fuori tutto e rimettere come stava prima. Adesso appoggiamo le buste in un angolo. Dentro riconosco resti di cose che non mi va di lasciare del tutto. Faccio finta di non vedere. Le cose non sono più le cose. Quelle che abbiamo conosciuto. Quelle che ci sono servite. Di cui abbiamo pensato "non ne posso più fare a meno". Tutto ora sta in dei sacchi. Pronti ad essere buttati. Io sto davanti a loro. Con la persuasione del nuovo. E nella cautela verso il vecchio comunque non c'è nessuna paura.
Lei forse non si è accorto che nel presente articolo eccezionalmente le quattro o cinque ultime righe non provengono dal territorio della matita bensì sono state aggiunte all'ultimo minuto frettolosamente e in modo abborracciato. Forse troverà ridicolo il fatto di prendere tanto sul serio la nascita di un articolo. Tuttavia per me il metodo della matita ha una sua importanza. Poiché ci fu un'epoca per l'autore di queste righe nella quale egli ebbe spaventosamente in odio la penna, nella quale egli ne fu stanco a un punto tale che non saprei veramente descrivere, nella quale egli diventava del tutto stupido appena si metteva un pochettino a servirsene, e per liberarsi da questo disgusto della scrittura si mise ad abbozzare a matita, schizzare, folleggiare. Le posso assicurare (e questo è già cominciato a Berlino) che ho assistito, con la penna, ad una vera rovina della mia mano, una sorta di crampo dalla cui presa mi sono faticosamente, lentamente liberato per mezzo della matita. Un crollo, un crampo, una confusione, sono sempre di natura corporale e psichica al tempo stesso. Fu per me un periodo di sfacelo che si manifestò nella mia scrittura, nella sua dissoluzione, ed è copiando i miei appunti a matita che, come un bimbo, reimparai a scrivere.
Robert Walser da www.zibaldoni.it/seconda_serie/2005_11_07.htm
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