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 il letto di Federica... di Carvelli
 
"
"Ho vissuto solo così a lungo che tutto quello che mi circonda è personale, privato. Non mi meraviglierei se non ci fosse più nessuno in grado di capire quel che dico". "Io ti capirò," disse con tenerezza. "Dammi solo un po' di tempo... e capirò tutto quello che dirai." Si strinse nelle spalle. "Ho anch'io un mio modo personale di scherzare..." "Da oggi in avanti..." dissi, "uniremo di nuovo i nostri codici privati e ricostruiremo un'intimità a due". "Sarà molto carino," disse. "Ancora uno stato a due," dissi. "Sì," disse.

Kurt Vonnegut
"
 
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 16/06/2008 @ 14:30:14, in diario, linkato 726 volte)

Da www.mattatoia.splinder.com

anche questo bisogna fare,
precedere il diluvio
 ma lo stesso non porti in salvo
le scorte alimentari e gli animali
per la tua sopravvivenza

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Di Carvelli (del 16/06/2008 @ 14:29:24, in diario, linkato 710 volte)
Io sto qui. Come un anacoreta, come un santo. Come il migliore dei peccatori in circolazione. Il più serio, il più dedito al suo vizio. Il più virtuoso, dunque. Oggi è lunedì e bevo caffè. Guardo dalla finestra per vedere se qualcuno mi guarda. Nessuno mi guarda. Non guardo più nessuno. Sto qui.
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Di Carvelli (del 16/06/2008 @ 09:13:31, in diario, linkato 784 volte)

Mentre camminiamo dice: “Senti”, e poi il mio nome, e io aspetto che mi dica che lei è qui e anche che tra noi è finita. Però non lo fa, e io ho la sensazione che lui in effetti intendesse dirmi qualcosa del genere, almeno dirmi che lei era lì, e che poi per qualche motivo abbia cambiato idea. Invece, dice che tutto quello che è andato male stasera è stato per colpa sua e che gli dispiace. Sta con la schiena appoggiata alla porta di un garage e il viso alla luce e io sto di fronte a lui con le spalle alla luce. A un certo punto mi abbraccia, così all’improvviso che la cenere della mia sigaretta si sgretola contro la porta del garage alle sue spalle. So perché siamo qui fuori e non nella sua stanza, ma non glielo chiedo finché non ci siamo calmati del tutto. Poi dice: “Non c’era quando hai telefonato. È tornata dopo”. Dice che l’unico motivo per cui lei è lì è che ha un problema e lui è l’unica persona con cui ne può parlare. Poi dice: “Non capisci, vero?” Torno a casa dal lavoro e c’è un suo messaggio: che non viene, che ha da fare. Richiamerà. Aspetto che si faccia sentire, poi alle nove vado da lui, ma non è in casa. Busso alla porta del suo appartamento e poi a tutte le porte dei garage, non sapendo quale sia il suo – nessuna risposta. Scrivo un biglietto, lo rileggo, scrivo un altro biglietto e glielo appiccico alla porta. A casa sono irrequieta e l’unica cosa che riesco a fare, anche se avrei molto da fare, visto che domattina parto, è suonare il piano. Telefono di nuovo alle undici meno un quarto e lui è a casa, è andato al cinema con la sua ex ragazza, lei è ancora lì. Dice che richiamerà. Alla fine mi siedo e scrivo sul mio quaderno che quando lui mi chiamerà, dopo, o verrà da me oppure non verrà e io mi arrabbierò, e quindi mi ritroverò o con lui o con la mia stessa rabbia, e questo potrebbe anche andar bene, visto che la rabbia è sempre una gran consolazione, come ho scoperto con mio marito. E poi continuo a scrivere, in terza persona e al passato, che chiaramente lei aveva da sempre bisogno di un amore, foss’anche un amore complicato. Lui richiama prima che io faccia in tempo a scrivere tutto. Quando chiama, sono passate da poco le undici e mezza. Litighiamo fin quasi a mezzanotte. Tutto quello che dice è contraddittorio: per esempio, dice che non ha voluto vedermi perché voleva lavorare e ancor di più perché voleva stare da solo, ma non ha lavorato e non è stato da solo. Non c’è modo di fargli riconciliare anche solo una delle sue contraddizioni e quando questa conversazione comincia ad assomigliare troppo a molte altre avute in passato con mio marito, lo saluto e riattacco. Finisco di scrivere, anche se ormai non sembra più vero che la rabbia sia di alcuna consolazione.


Lo richiamo cinque minuti dopo per dirgli che mi dispiace di tutto questo litigare, e che lo amo, ma non risponde nessuno. Chiamo di nuovo cinque minuti dopo, pensando che magari è andato in garage ed è tornato. Penso di prendere la macchina e andare di nuovo da lui e cercare il suo garage per vedere se è lì dentro a lavorare, perché è lì dentro che tiene la scrivania e i libri ed è lì dentro che va a leggere e scrivere. Io sono in camicia da notte, è mezzanotte passata e la mattina dopo devo partire alle cinque. Ciononostante mi vesto e mi faccio i due chilometri che mi separano da casa sua. Ho paura, quando arriverò da lui, di vedere davanti alla casa altre macchine che prima non avevo visto e che una di esse appartenga alla sua ex ragazza. Entrando nel vialetto vedo due macchine che prima non c’erano e una di esse è posteggiata il più vicino possibile alla porta, e penso che c’è lei. Scendo e faccio il giro della palazzina fin sul retro, dove dà il suo appartamento, e guardo dalla finestra: la luce è accesa, ma non riesco a vedere niente con chiarezza perché le veneziane sono semiabbassate e il vetro è appannato. Ma le cose dentro la stanza non sono uguali a come erano qualche ora fa, e prima i vetri non erano appannati. Apro la porta esterna a zanzariera e busso. Aspetto. Nessuna risposta. Lascio sbattere la porta a zanzariera e vado a controllare la fila di garage. Adesso, mentre mi allontano, si apre la porta alle mie spalle ed esce lui. Non riesco a vederlo bene perché nel vicoletto accanto alla porta è buio e lui indossa abiti scuri e quel poco di luce che c’è è alle sue spalle. Mi si avvicina e mi abbraccia senza parlare, e io penso che se non parla non è perché stia provando chissà che ma perché si sta preparando quello che dirà. Mi lascia andare mi gira attorno mi precede verso il punto in cui sono posteggiate le macchine davanti alle porte dei garage.

Cerco di ricostruire la cosa.
Allora, sono andati al cinema e poi sono tornati a casa sua e poi ho telefonato io e poi lei se n’è andata e lui ha richiamato e abbiamo litigato e poi io ho richiamato due volte ma lui era uscito a prendere una birra (dice) e poi io ho preso la macchina e sono andata lì e nel frattempo lui era tornato con la birra e lei pure era tornata e lei era in camera sua e di conseguenza siamo rimasti a parlare davanti alle porte dei garage. Ma qual è la verità? È davvero possibile che sia lui che lei siano tornati in quel breve intervallo tra la mia ultima telefonata e il mio arrivo a casa sua? O forse la verità è che mentre lui mi telefonava lei aspettava fuori o in garage o in macchina e che poi lui l’ha fatta entrare di nuovo, e che quando il telefono ha squillato per la mia seconda e terza chiamata lui l’ha lasciato squillare senza rispondere perché non ne poteva più di me e dei nostri litigi? O forse la verità è che in effetti lei se n’è andata e in effetti è tornata dopo ma invece lui è rimasto e ha lasciato squillare il telefono senza rispondere? O forse l’ha fatta entrare e poi è uscito a comprare una birra e intanto lei lo ha aspettato lì e ha ascoltato il telefono che squillava? Quest’ultima è la meno verosimile. E comunque non credo che ci sia stata alcuna spedizione per la birra.
Il fatto che lui non mi dica sempre la verità certe volte mi fa dubitare che sia sincero, e allora mi sforzo di capire da sola se quello che mi dice è vero o no, e a volte capisco che non è vero e a volte non lo so e non lo saprò mai, e a volte solo per il fatto che lui me lo continua a ripetere mi convinco che è vero perché non credo che ripeterebbe tanto spesso una bugia. Forse la verità non è importante, però vorrei saperla anche solo per poter giungere ad alcune conclusioni riguardo ad alcune domande, quali: se è arrabbiato con me o no; se lo è, allora quanto; se la ama ancora o no; se sì, allora quanto; se mi ama o no; quanto; quanto è capace di ingannarmi nei fatti e dopo i fatti a parole.

 

Questo è il primo racconto della raccolta Pezzo a pezzo di Lydia Davis  (Minimum fax - Trad. Adelaide Cioni). Ve ne avevo già parlato. Il racconto si chiama Storia. Mi piacerebbe che ogni tanto questo racconto possa essere riletto - magari nella sua integralità - quando le cose (le storie) vanno a pezzi come succede alla tazzina in copertina. Perché prima o poi le cose vanno a pezzi e rimetterle su non è affar da poco. Perché è l'affare della vita: un affare che non sempre ci piace. Qual è l'affare che non ci piace? Rincollare? Ritrovare i pezzi? Bere da una tazza sbeccata? Comprarne un'altra ma conservarla?

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Di Carvelli (del 13/06/2008 @ 11:38:38, in diario, linkato 1457 volte)

necropoli

Boris Pahor. La memoria e il dolore

di Roberto Carvelli

Il caso Pahor avrebbe dovuto scoppiare prima in Italia perché Boris Pahor pubblica regolarmente nel nostro Paese ma in lingua slovena dal 1948 e da diversi anni ha ricevuto i giusti riconoscimenti in Francia, Germania e Usa. Il caso Pahor avrebbe dovuto accasarsi prima tra gli editori italiani non fosse altro per il fatto che il Nostro porta sulla carta d’identità la città di Trieste e il 1913 come data di nascita. A dispetto della quale è ancora nel pieno dell’attività e una sua recente presenza alla trasmissione di Fabio Fazio gli ha regalato simpatia generale e i primi posti delle classifiche di vendita. Se non fosse stato per le anticipazioni meritorie di un editore di Rovereto, Nicolodi, che aveva mandato in stampa Il rogo nel porto, La villa sul lago e Il petalo giallo (2001, 2002 e 2003, rispettivamente) di Pahor non avremmo saputo nulla o quasi. Ci è voluta la ripubblicazione (leggermente rivisitata) del suo capolavoro Necropoli (Fazi, € 16,00) per un editore medio-grande e più saldamente innestato nelle politiche culturali (le pagine dei giornali, i critici, l’indirizzo verso un ripensamento della sua figura intellettuale). E’ così che va il mondo. A me di Pahor avevano già parlato amici sloveni e un ricercatore di Napoli e blogger - www.malacarne.splinder.com - trasmettendomi la copia iniziatica di quella prima stampa a cura del Consorzio Culturale del Monfalconese. Dunque ecco Nekropola con tutto il suo portato di dolore, quello dei campi di concentramento, un dolore che Pahor racconta e rivisita nel rivivere dei ricordi e nel presente di un ritorno nei luoghi dei delitti. E’ possibile andare in gita in un campo senza sentirsi turisti? L’autore solo pare permettersi con sofferenza di dire in bel no. I ricordi dello scrittore triestino di lingua slovena sono sì dolorosi ma di un dolore naturale che fa ancora più male nell’osservazione sobria della scala delle valutazioni: “L’estate era magnifica, anche se non per noi”. Un dolore spiegato: “Non eravamo stati rinchiusi lassù per sperimentare insoliti punti di vista sugli insediamenti umani, ma perché potessimo renderci conto con chiarezza di quanto fosse assoluta la nostra distanza da quegli insediamenti”. Oltre alla banalità del male c’è, ben oltre essa, una vera e propria beffa del male. La “natura carsica” del carattere dell’autore fa da propellente per il rinforzarsi dell’impressione del grande deliquio compiuto quasi alla metà del secolo scorso da una nazione, una parte, per quanto mal consigliata automotivatissima, del genere umano verso un’altra parte del genere umano. Una parte, quest’ultima, declinata e divisa per triangoli sulla veste (massimo esempio di massimizzazione disumana). Pahor ha il sospetto, in effetti, che questa banalità sia una normalità del male: “Oppure l’uomo, a dispetto della propria natura, accetta inconsciamente le regole di un ambiente in cui anche la morte si attiene a un orario e a un ordine del giorno”. Quello di Pahor è un libro che sta a tutti gli effetti al fianco delle opere prestigiose di Levi e Kertesz e le classifiche di vendita una volta (ma speriamo due o tre volte) tanto raccontano un interesse che ci fa piacere veder esplodere facendo scoppiare il male negazionista o tardo-nazifascista che ancora inquina molte menti perturbate dal male.

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Di Carvelli (del 13/06/2008 @ 09:15:27, in diario, linkato 746 volte)
L'ho letta all'alba dunque garantisco sulla freschezza ma non sulla verosimiglianza. Ma ci provo. Viene da una scrittura buddista ma la storia è un apologo universale. La storia di un mercante che finisce - siamo nel regno di Parthia, in India - nelle spire dell'insana passione del re di quei luoghi per i cavalli. Passione che si acuisce fino alla preparazione di un intruglio dalle foglie larghe capace di trasformare persone in cavalli. Come forma di cortesia il re decide di testarla solo sugli stranieri - stante le proteste interne - e i malcapitati si mutano in equini. ma quel mercante ha un "figlio devoto", così si chiama lo scritto in italiano che ho letto (è di Nichiren Daishonin). Bene, quel figlio che fa? Come dimostrazione di amore filiale va a cercare il padre e, trovatolo e recuperata la stessa erba gliela dà in pasto ottendendo la reversibilità della trasformazione. Dunque un figlio può salvare un padre. Sì, un figlio può. Non si dice che deve e non si dice come salvare e cosa si salva. Ogni tanto sento dire (leggo) "uccidere il padre" (la freudiana teoria ormai assodata) e penso che per molti si trasformi in una specie di regolamento di conti sotto mutate spoglie (mutate sta per non violente fisicamente). A me è chiaro cosa voglia dire e non si configura diversamente dalla storiella che vi ho citato. Insomma, salvare e uccidere per me qui hanno una parentela non così lontana. Dove salvare significa restituire una dignità superiore alla luce di una crescita (del figlio). Una specie di felice superamento e insieme una restituzione. Purché il tutto avvenga senza violenza e per devozione. E perché sia così non deve essere un fatto personale. Perché non è mai un fatto personale la trasformazione che qui si richiede, il salvare, il trascendere (appunto). Per fare questo serve poca persona e per attenuare la persona serve un qualcosa di più grande a cui riferirsi per controbilanciare il nostro breve orizzonte. E non è facile? No, non lo è. Anche se è semplice.
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Di Carvelli (del 12/06/2008 @ 16:12:36, in diario, linkato 797 volte)

 «L'uomo vive come un verme, ma scrive come gli dei».

Imre Kertész


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Di Carvelli (del 12/06/2008 @ 11:37:13, in diario, linkato 713 volte)

Questo racconto è uscito sull'ultimo numero di Zoe Magazine

Due più due meno due

 

di Roberto Carvelli

Magari sarà il caso nostro e basta. Di me e di Mena. Magari solo a noi è successo così, che non ricordiamo come è nata l’intenzione, chi ha fatto il primo passo. Nessuno di noi lo sa più: non c’è una traccia né nella testa né nel corpo. Era un desiderio tuo che io ho fatto mio o viceversa? Un non volerti contraddire? Un tuo assecondarmi? Nessuno lo ricorda più. Chi ha detto “proviamo”? Oggi diciamo “è un gioco”. Diciamo “insieme... lo abbiamo fatto insieme”. Lo raccontiamo così forse come altri raccontano il rito del bridge o del burraco. Una cosa a giorni precisi. Appuntamenti. Vestirsi e spogliarsi. Cura dei dettagli prima e precipitazione dopo. Un giro d’Italia a parcheggi, cinema, discoteche, dune. Lampeggiare ed essere illuminati. Scendere salire: da un auto all’altra. Nudi in un cono di alogeni, in un carosello di fari, di sportelli e schiamazzi senza più suscettibilità. Il carnevale di ogni settimana con una maschera preparata con cura. Lingerie e lampo a verticale totale, pochi bottoni per uno slaccio veloce. Scattarsi delle foto e girarle a un indirizzo mail. E aspettare: un’altra foto. E ricostruire in quello scatto qualcosa che ti piaccia, che mi piaccia. Una telefonata, “simpatici”, “bel tipo”. Oppure “non mi convincono, mi sembrano due persone rozze”. O decidere di provare, di andare a vedere come in un poker. Che cosa può succederci? E poi andare in un albergo e cambiarci di stanza o stringerci attorno ad un letto in tanti e ognuno la sua mossa, alfiere in F1, torre in B4. Locali d’elite e discoteche finte popolate di russe a gettone di presenza. Andarsene o rimanere, cancellare dalla lista gente o luoghi, tra zone industriali e periferie appartate. Un giro nei sexy shop per rinnovare la seduzione cedendo ogni tanto a una volgarità accettabile, compiaciuta o divertita. E, intanto, la vita di tutti i giorni.

Ogni tanto forse ci saremo chiesti nella nostra solitudine “e se finisse?” Se tutto questo perdersi e ritrovarsi, andare in ufficio, fare la spesa, pagare tasse e mutui, puntare la sveglia alle sette, accendere il forno, se tutto questo avesse un “basta”? Se non ci fosse più intesa, se non resistesse una volontà? Che ne sarebbe del nostro gioco? Chi dei due continuerebbe e come? Ma sono le domande di tutti. Litigare e fare pace, aspettarsi e rimanere delusi: i tentennamenti di ogni coppia. Cose così, forse troppo serie, a cui è bene di tanto in tanto far seguire una partita. Mi guardi, ti spogli, da una macchina un uomo ti guarda, mi fai un occhietto, “sei bella sempre”, scendi, ti vedo sparire nel buio fuori dalla portiera che rimane aperta, aspetto un’altra te, conto fino a dieci, a cinque sale una donna minuta, chiudo gli occhi.

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Di Carvelli (del 12/06/2008 @ 09:41:44, in diario, linkato 754 volte)

Uno sull'altro ma l'abbiamo visto. Capita sempre più di rado. ma per i Dardenne questo e altro. Intanto qualche informazione http://it.wikipedia.org/wiki/Jean-Pierre_Dardenne. Mi domando cosa sarà stato prima de La promesse. Come fare a vedere il pregresso. Che forse è un invito alla rassegna. Se è possibile Il silenzio di Lorna è il film più bello da quello che so, da quando so. Ma sono gusti. Io, per esempio, ad oggi ho sempre tradito una passione per Rosetta. Ma nel Silenzio c'è la colpa e un modo naturale (innaturale) per esorcizzarla. Concepire la riparazione. Una spiazzante via per una pace interiore che alla fine è uan perdita, una fuga ma anche un ritorno all'essenziale. Un film carico di simboli (questo più che gli altri) ma sempre nell'orizzonte della schiettezza dei due registi. Quella che sappiamo. Come per poco altro mi accade rivedrò più di una volta.

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Di Carvelli (del 11/06/2008 @ 10:29:13, in diario, linkato 725 volte)

Erano le 24 ma era anche una serata fresca. Mi sono seduto nel giardino e ho letto. C'era un'aria serena, voci non italiane che viaggiavano basse da marciapiede a marciapiede o da terrazza a terrazza. Le parole, quelle che leggevo, si inanellavano l'una all'altra senza confliggere con le poche fluttuanti nell'aria frizzante della notte. Forse il Porto non era il liquore giusto. Forse era il solo. Eccomi che mi ritrovo a parlare di Halldor Laxness. Di lui leggete in questi siti:
www.librarything.it/author/laxnesshalldor
wikipedia.sapere.alice.it/wikipedia/wiki/Halldor_Kiljan_Laxness
www.iperborea.com/web/autori/laxness.htm
www.collettivamente.com/articolo/563574.html

Io vi leggo questa frase: "La nonna aveva l'abitudine di rispondere alla gente con modi di dire e proverbi. Spesso c'era un umorismo benevolo nella sua risposta, ma anche un po' distaccato, in qualche modo; come se stesse parlando da una finestra aperta a qualcuno alle sue spalle; la cantilena monotona con cui si esprimeva aveva una punta di compassione, a volte quasi di rassegnazione, ma mai di amarezza". E sono andato a letto. nella stessa aria fresca del mattino pensando all'Islanda e al concerto purtroppo già esaurito (scoperto ieri mentre andava a vedere i Doctor3 all'Auditorium) dei Sigur Ros. Anzi, a proposito.

POSTILLA IN FORMA DI ANNUNCIO.
CERCO BIGLIETTO PER CONCERTO SIGUR ROS AUDITORIUM ROMA

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Di Carvelli (del 10/06/2008 @ 15:51:05, in diario, linkato 763 volte)
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