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 il letto di Federica... di Carvelli
 
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Affamato e inferocito, sapevo che nulla al mondo mi avrebbe costrtto al suicidio. Proprio in quel periodo avevo cominciato a capire l'essenza del grande istinto di conservazione, la qualità dui cui l'uomo è in sommo grado dotato. Vedevo i nostri cavalli sfiancarsi e morire - non posso esprimermi in altro modo, utilizzare altre parole. I cavalli non si distinguevano in nulla dagli uomini. Morivano a causa del Nord, del lavoro troppo gravoso, del cibo cattivo, delle botte - e anche se subivano tutto ciò in misura mille volte inferiore agli esseri umani, i cavalli morivano prima. E capii la cosa più importante: che l'uomo è diventato uomo non perché è una creatura di Dio, né perché nelle mani ha quella cosa straordinaria che è il pollice. Ma perché è FISICAMENTE più forte, più resistente di tutti gli altri animali, e poi perché in seguito ha saputo costringere il proprio spirito a servire con successo il corpo.

Varlam Salamov
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 03/12/2007 @ 15:03:34, in diario, linkato 870 volte)

Giorni fa pensavo, guardando una pubblicità di un noto artista alla tessera della metro, a come gli sponsor dovrebbero obbligare i loro testimonial all'uso anche solo saltuario del prodotto o servizio rappresentato. Pensavo così e per esteso riflettevo anche sulla rarità di incontri con gente nota nella metropolitana. Parlo di Roma. Poi, pochi giorni dopo su Internazionale questo articolo di Goffredo Fofi. Pensavo di linkarvelo poi ho avuto da fare poi L. Ecco

Il primo metrò

I passeggeri dell'alba hanno espressioni pensierose e portano il peso di un sonno incompiuto


Internazionale 720, 22 novembre 2007

Sulla metropolitana di Roma non si incontrano mai facce note. Non ci sono giornalisti famosi, politici, personaggi televisivi, scrittori o attori. A nessuna ora del giorno e della notte.

Io sono un frequentatore quotidiano e assiduo del metrò, e ricordo solo di aver incrociato, tanto tempo fa, un frettoloso Gianni Amelio diretto a Cinecittà. Non mi stupisce più di tanto.

La sotterranea è poco accogliente ed è rumorosissima, ma non per colpa dei tanti viaggiatori, che anzi sono silenziosi quasi fossero intimoriti da questo preannuncio di discesa al purgatorio. La colpa è dell'alto e talvolta altissimo volume della musica (pessima) della radio interna o delle pubblicità diffuse dagli schermi che pendono dai soffitti delle stazioni principali.

C'è una legge sull'inquinamento acustico, ma qualcuno ha mai verificato i livelli di tanti ambienti pubblici come questo? La "qualità della vita", la vivibilità della città dipende anche da queste "minuzie", però ossessive e isterizzanti. Ma le autorità badano al bilancio e, coscienti o meno, aiutano gli utenti a non pensare. Su questo non c'è distinzione tra destra e sinistra, l'accordo è assoluto.

D'altronde, come stupirsi che a frequentare la metropolitana sia soltanto una parte della popolazione, la meno fortunata? Leggo sui giornali un rapporto di Legambiente secondo cui a Roma ci sono 70 automobili ogni 100 abitanti (abitanti, non nuclei familiari) contro le 32 di Berlino e le 26 di Parigi.

Ma a Parigi il comune privilegia da sempre il trasporto pubblico e a Berlino c'è la metropolitana forse più silenziosa e civile del mondo. Settanta automobili ogni 100 abitanti! Non guido e faccio dunque parte del 30 per cento che non ha l'auto. Per di più amo poco i tassisti, ma vivo nel paese di Padoa Schioppa, di Marchionne, degli economisti più accreditati, che ritengono che il segreto della ripresa economica stia ancora nell'aumento della produzione di automobili…

Sto divagando, ma "tutto si tiene". È degli stranieri in Italia, a partire da Roma, che volevo parlare. Io sono mattiniero, lavoro meglio nelle prime ore della giornata, vado in ufficio all'alba e il metrò comincia a essere affollato prima delle sei. Ma di stranieri.

A occhio, a quell'ora gli stranieri sono 70, forse 80 passeggeri su cento. Giro l'Italia e ho visto che lo stesso vale per la metropolitana di Milano, per i tram e gli autobus di tutte le città italiane. Nei volti assonnati degli uomini e delle donne, giovani o adulti, che vanno al lavoro in quelle ore, mi sembra di riconoscere volti e situazioni del passato: i tram dell'alba nella Torino o nella Milano del boom, la "circolare" di Roma, gli autobus napoletani degli anni settanta e ottanta.

Allora si trattava di italiani e solo di italiani, e di settori sociali ben definiti anche se in certi anni, al nord, erano più i meridionali che i settentrionali. Adesso si tratta di stranieri, che hanno sostituito gli italiani in quei lavori che non amiamo più fare – con ragione – e che esigono almeno due traversate quotidiane della città e delle periferie.

Alle cinque e mezzo, alle sei del mattino si può star sicuri che i delinquenti dormono, sono andati a letto da poco, e che i rumeni che viaggiano in metrò sono persone normali, per bene. I passeggeri dell'alba sono uomini, donne, ragazzi che hanno espressioni pensierose, talvolta trasognate nel peso di un sonno incompiuto e di sogni malamente interrotti. Tacciono.

Solo qualcuno scambia poche parole con un amico o collega che ha la sua stessa destinazione. Non so perché, ma all'alba sono rari gli africani, eccetto quelli che trascinano i grossi pacchi con le cose che esporranno agli angoli di strada dove si sono conquistati il diritto, scritto o non scritto, di mercanteggiare. Ci sono asiatici ed europei dell'est, ma in gran maggioranza europei.

Hanno volti segnati dalla fatica e dall'esperienza come li avevano i proletari italiani di ieri e che non hanno mai, per esempio, i politici o gli intellettuali di oggi, unificati e omologati dalla pace e dai consumi: e sembrano (sembriamo) usciti da una trasmissione televisiva o, al meglio, da un cartone dei puffi.

Ho sempre avuto una sorta di passione per i volti, e rimpiango la scomparsa, nella pittura, della grande arte del ritratto, che resiste a volte in fotografia. Da giovane mi perdevo a scrutare i volti delle persone che incrociavo sugli autobus, nelle strade, nei mercati: cercavo di indovinare chi fossero, che vita avessero, quali desideri. Da che regione venivano, che lavoro facevano, per chi votavano, che aspirazioni li muovevano, e perfino se erano buoni o cattivi.

Quasi sempre i volti mi "parlavano", li si poteva "leggere" e leggere in loro l'Italia. Le probabilità di indovinare erano alte. I volti di oggi sono monotoni, sembrano pacificati e non lo sono, ma mostrano gli stessi costumi e desideri, sentimenti, pensieri simili, come le loro espressioni, gonfie, poco riflessive, che dietro hanno rovelli tutti uguali.

I volti degli stranieri non sono così, perché gli stranieri sono ancora poveri. Nei giorni in cui si parlava tanto e troppo di rumeni, mi chiedevo chi fosse rumeno e chi no ma ci rinunciavo subito. Le facce dei metrò dell'alba non sono di rumeni o di afgani, di serbi o di italiani, sono di proletari.

http://www.internazionale.it/firme/articolo.php?id=17641

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Di Carvelli (del 20/11/2007 @ 10:20:22, in diario, linkato 1335 volte)

Mi è stata segnalata e ho letto un'intervista a Alessandro Dalai della Baldini Castoldi Dalai su Leggere:tutti che è un mensile gratuito offerto da alcune librerie. Il numero è questo

 

 

 

 

 

 

 

Probabilmente non è più in libreria ma se vi capita vale la pena sfogliarlo e leggere il dissenso di Dalai sul mondo editoriale. Parole - speriamo sincere -  che suonano come uno schiaffo a tanta roboante prosopopea di altre edizioni e altri editori. Intanto mi viene in mente che forse si fa un grande parlare di piccola editoria e uno scarso di media. A questo stesso proposito e passando (meglio non passando) il segno molti editori medi fanno a gara per apparire piccoli partecipando a fiere di settore (piccolo settore) pur non avendone i titoli, pur non avendoli più. Ci vorrebbe una regola: si è piccoli fino a tot fatturato e a tot titoli (ammesso che sia tutto lì quello che ti fa crescere). Ma non è così. Nella realtà gli editori medi scontano il contrasto corpo a corpo con i grandi, la prima linea. Molti parlano di letteratura a bocca larga...Ma perché non si dice mai quanto costa mettere una pubblicità su Repubblica o altrove, quanto costa mettere due libri in vetrina in una Feltrinelli ecc? E, soprattutto, si può parlare di letteratura facendo finta che sia un fatto di solo gusto e di sola arte? Nelle parole di Dalai si sente la forza di un dissenso che non avevo mai letto prima. Neppure tra le righe dei piagnistei dei medi spacciantisi per piccoli, dei piccoli che si pretendono minuscoli, dei medi che con alterigia si mostrano grandi salvo fare crac come la legna troppo secca.

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Di Carvelli (del 19/11/2007 @ 14:38:11, in diario, linkato 1310 volte)
Di più che disperata: straziata. Alta, un bel corpo, la faccia da disfunzione ormonale. Occhi enormi e in fuori, denti larghi e gialli. Calze alla parigina, trucco scolato. Anni quaranta passati da un po'. Cosa piange e da quando? Cosa dice (la vedo che pronuncia la sua disperazione o forse una preghiera, una supplica)? A chi lancia o lancerebbe maledizioni e per cosa? Triste piangere in piedi alla fermata dell'autobus. Fermata vuota e autobus nemmeno all'orizzonte. Sembra contenere sulla sua faccia tutti gli errori di una vita. Se basta un attimo a cancellarli mi domando se ci sarà il suo attimo e quando sarà.
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Di Carvelli (del 16/11/2007 @ 12:24:19, in diario, linkato 1373 volte)
Piove e ripiove. Le parole s'incollano nella riga della tastiera. I tasti battono parole dislessiche (chi le scrive). Uno sull'altro ci accalchiamo nella metro. Uno davanti all'altro per indovinare l'apriti sesamo delle porte. Leggo e sbaglio. Scendo una fermata dopo. Ritorno. Le parole s'incollano dislessiche (chi le legge). Uno sull'altro. Fuori dalle mani nere pendono ombrelli come da un albero di Natale. Piove. Nessun'altra liturgia: solo stanchezza e pioggia.
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Di Carvelli (del 15/11/2007 @ 16:31:42, in diario, linkato 1608 volte)
Stavamo lì, col panierino. "Cosa c'hai tu?" Mica si parlava. Aprivi il cestino e facevi vedere. Mica "guarda!" Aprivi. E tu? E faceva vedere pure lui. Qual è la merenda più buona? Gli scenziati si sono a lungo interrogati in team con nutrizionisti, psicologi e sociologi. Pare che la risposta sia "quella dell'altro" proprio come l'erba. Quella del vicino. Sì, il praticello, amici, quello davanti casa.
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Di Carvelli (del 15/11/2007 @ 11:17:14, in diario, linkato 1500 volte)

Ripubblico la lettera che avevo scritto in replica ad una lettera di Maurizio Maggiani che, contrariamente a quanto concordato (e tra l'altro anche dopo essere stato contattato per avere chiarimenti proprio da un redattore del medesimo sito) non è stata pubblicata dal portale genovese mentelocale (che successivamente non si cura neppure di rispondere alla mia mail) che in occasione dell'uscita del libro e della mostra contemporanea dedica ampio spazio-intervista allo scrittore genovese che ci intrattiene col suo concetto di perdersi nella città.

Gentile Maurizio Maggiani

 

alle elementari, ebbi una maestra che abiurò all’improvviso la matematica e si convertì all’insiemistica. Non so cosa le fosse successo e comunque durò solo per un anno ma forse per questo rimasi involontariamente affascinato da quel metodo fatto di cerchi e cerchietti e, pur avendolo successivamente dimenticato, mi sono trovato spesso a farne tesoro. Abbiamo scritto, io e lei, Maggiani, due guide letterarie (INSIEME: GUIDE LETTERARIE) e di un sottoinsieme particolare, un cerchietto nel cerchietto (SOTTOINSIEME: GUIDE LETTERARIE DI CITTA’ ITALIANE SCRITTE DA SCRITTORI ITALIANI), in questi anni particolarmente in voga. Fino a qui, io mi sento ben contento di trovarmi in questi due cerchi al fianco del suo nome più noto e blasonato. Quello che mi infastidisce è trovarmi al suo fianco, in quel sottoinsieme con un nome in codice molto simile. Anzi, per rimanere alle elementari, diciamo a una coniugazione del verbo: PERDERSI (A)/MI SONO PERSO (A) a cui segue solo il nome di una città diversa. Il tutto a una distanza breve di anni dalla pubblicazione del mio libro. Provo a rimettere vicine le parole non senza un brivido: Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale e Mi sono perso a Genova. Una guida (originariamente, come risulta da tutti i siti dell’acquisto on line di libri, doveva chiamarsi Guida sognante per perdersi a Genova).

Non mi fa lo stesso effetto della parola “strada” nei romanzi arcinoti che cita, talmente noti da far evaporare qualsiasi accusa di somiglianza proprio perché il confronto è sotto gli occhi di tutti. D’altronde “strada” è parola talmente generica, credo, che un uomo della sua profonda cultura non faticherebbe a riscontrare esempi di titoli di romanzi nella sua e in altre lingue della letteratura.

Lei, Maggiani, gigioneggia e ridimensiona riflettendo genericamente su difetti di retina, donne e laghi in cui faremmo pesca comune o sull’utilizzo dello stesso dizionario quando sarebbe bastato evocare lo spettro della “contemporaneità”, quello stesso che, però, fa stridere i due titoli. Poi conclude con un tono muscolare in cui mette avanti il suo editore per titolo e IV di copertina. Già, ha ragione lei: sono cazzatine (uso il suo dizionario) dal punto da cui lei guarda e lo saranno ancor più quando i muscoli del suo grande editore – che ci tengo ribadirlo ha tutta la mia stima – e relativa grande rete distributiva avrà la forza di cancellare un ricordo più piccolo. Dal mio punto di vista non lo sono, cazzatine. Se fossimo nel mondo della pubblicità – e forse ahimè in parte ci siamo – l’eventuale creativo, una volta smascherato, avrebbe fatto la figura che merita. Lei si immagina una marca di pasta con un messaggio di vendita troppo simile ad un altro? “Muitoni: e c’è casa”?

Non sono così naïf da pensare di mettere il copyright ad un verbo (perdersi) ma vedere pubblicare una guida letteraria (una guida letteraria, non un romanzo) con l’espresso invito nel titolo a perdersi in una città come modo conoscitivo, pur dopo eccelsi secoli di flanerie di cui tutti abbiamo fatto e faremo tesoro, non mi aspettavo che accadesse a pochi anni, ad un Premio Strega e ad un grande editore. Scrivo così ma in cuore ho un’altra sgradevole sensazione che mi sforzo di scacciare nonostante molti, del nostro stesso ambiente, Maggiani, mi ricordino in questi giorni quello che lei tra le righe sembra voler dire ovvero che è così...che si sa, che tutti gli scrittori rubano, che i grandi rubano o s’ispirano ai piccoli mentre poi sono molto orgogliosi di non somigliare ai pari loro e compagnia cantando.

Quello che avrei voluto io, invece, in questi giorni, Maggiani, è che si alzasse una riflessione diversa – che non mi aspettavo potesse venire da lei o dal suo editore – sulle sproporzioni tra la piccola editoria e la grande (e non con il solo gusto del “piccolo è bello” che spesso è oleografia che nasconde problematiche serie come mancati pagamenti, scarsa trasparenza nelle rendicontazioni o strozzatura dei distributori, scarsa visibilità commerciale e mediatica ecc.), la mancanza di un codice di comportamento, il ricorso al marketing letterario, gli autori non sostenuti con forza dalla critica e quelli vivamente caldeggiati, il tema sempre vivo delle scuderie et similia, la mancata capacità di dragaggio e di arbitrato della comunicazione letteraria (fu critica letteraria) quella comunicazione letteraria purtroppo spesso presa in “polemiche di successo” e in quel sano e taciturno saper vivere.

Con cordialità per lei e quelli di mentelocale.it che hanno ospitato questo scambio

Roberto Carvelli

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Di Carvelli (del 14/11/2007 @ 14:57:46, in diario, linkato 1391 volte)

Riceviamo e volentieri pubblichiamo. Ciao L

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REC
Di Carvelli (del 14/11/2007 @ 14:04:50, in diario, linkato 1327 volte)

REC è la sigla, l'abbreviazione che mi è nuova e antica. Mi sembra che c'è stato un tempo che il comando era un altro. E' stato davvero così? Mica lo so. Non sono sicuro sicuro. Da un certo punto è scattata l'epoca del REC. Pigia REC. Metti REC. Prima era diverso? Si diceva altrimenti? Si estendeva l'abbreviazione? Si cercava il colore rosso? Non so, forse. Da un certo punto mi sono sentito dire REC, come tre lettere che avevano un senso preciso. Non so quando è successo.

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Di Carvelli (del 13/11/2007 @ 13:11:59, in diario, linkato 1540 volte)

Questo articolo di Franco La Cecla è comparso su il manifesto di venerdì scorso.

Il ciclista campa dove l’auto crepa
La bicicletta è l’invenzione del futuro. Bella, egualitaria, stilosa, anti-age, ecologica e sovversiva, eppure nel nostro paese governato da vecchi auto-lesionisti non se ne accorge nessuno. In Europa la bici si fa strada, in Italia le auto continuano l’esproprio illegale di spazio urbano, i ciclisti muoiono e chi sopravvive pedala ai margini o rischia di essere relegato in piste per cittadini di serie B
Franco La Cecla


Nelle attuali condizioni generali delle città, chiunque inviti con allegria ed eco consapevolezza gli utenti della città a servirsi della bici è un istigatore al suicidio.
Hanno un bel parlare i sindaci, le amministrazioni illuminate, perfino quelle che si lanciano verso la bici come servizio pubblico con un sistema di locazione superaccessibile ed ubiquo. Le cifre parlano chiaro. Il numero dei ciclisti uccisi o feriti nel traffico urbano è andato negli ultimi anni aumentando vertiginosamente.

Lo spazio urbano è di tutti
Non ci sono santi. Il ciclista ed il pedone ancor più di lui, sono esposti al pericolo maggiore: i loro corpi sono troppo fragili per circolare in mezzo ad un ammasso di ferraglia cittadina lanciata a più di trenta chilometri orari (che è la velocità oltre la quale qualunque impatto di un veicolo con un corpo umano genera quasi sempre la morte di quest’ultimo). E’ inutile e perfino criminale spingere i cittadini a servirsi delle bici come scelta ecologica, è ridicolo pensare che le piste ciclabili siano al riparo dei pericoli della strada. Fin quando la città, fin quando le città italiane saranno il luogo dove alle automobili è permesso il privilegio anacronistico di circolare avremo solo una ecologia alla Montezemolo o alla Pecoraro Scanio, cioè una ecologia dell’aggiustamento e della negoziazione che come effetto ha di far pagare i costi dell’inquinamento agli eco-consapevoli. E’ ridicolo pensare che la bici sia una questione di minore inquinamento, come se la questione ecologica fosse oramai solo in mano a centraline di controllo e a fisici dell’ambiente. Ma è possibile che nessuno si accorga che è una questione di normale equità di accesso alle risorse? Lo spazio urbano è una risorsa a cui tutti devono accedere in maniera democratica ed egualitaria.
E’ ormai noto che le automobili occupano uno spazio che viene concesso loro con un esproprio illegale e generalizzato delle zone pubbliche della città. Le strade sono di tutti i cittadini e nessuna tassa di circolazione dovrebbe consentire l’esproprio da parte del più forte dello spazio che è di tutti. Le automobili non solo inquinano, ma devastano lo spazio della democrazia, del diritto generale di godimento di una città. In più sono assolutamente anacronistiche. Se Diderot dovesse scrivere oggi la voce Stupidità Umana su una appendice alla Encyclopédie sicuramente descriverebbe un ingorgo normale alle ore di punta in qualsiasi città europea.
Chi oggi ha il coraggio di sostenere che l’automobile è un mezzo per circolare, per spostarsi? Non lo dicono nemmeno più i pubblicitari, le puttane dell’ebbrezza a basso costo su una Suv. Se c’è un motivo per cui la gente oggi compra ancora le Suv e le grosse cilindrate e ci circola in città (vorrei sapere se Walter Veltroni o qualunque altro sindaco illuminato ha mai fatto una ordinanza che proibisce categoricamente alle Suv di circolare in città) è che è un modo di occupare lo spazio altrui - una Suv occupa lo spazio di venti persone in piedi e di dieci sedute. Ve lo dicono anche le sciure milanesi che vi spiegano che così si sentono protette dal caos e dalla violenza cittadina. Insomma a pensarci bene le Suv e le automobili sono oggi giustificabili solo dalla guerra urbana. Non è un caso che le Suv nascano proprio come veicoli di guerra e abbiano tanto successo nella Mosca dei nuovi ricchi. Si tratta della guerra per accaparrarsi la città e per dimostrare a tutti che la sicurezza è proporzionale alla dose di prepotenza gestibile.

La politica sotto ricatto
E’ possibile che amministrazioni democratiche accettino questo ricatto? E’ possibile che oggi, ad una distanza limitatissima dalla fine delle risorse petrolifere e sull’orlo della crisi ambientale permanente non sia immediato, banale, qualcosa che il più stupido dei sindaci può fare, semplicemente proibire alle auto lo spazio della città? Vorrei proprio vedere chi avrà la onestà banale di farlo per primo. Ma in realtà la città è in mano ancora a ben altri interessi. In Italia esiste ancora una associazione che si chiama scandalosamente Automobil Club Italiano (una associazione tra le automobili!) e che ha acceso a fondi pubblici. Questa società, alla sua nascita, deplorava il numero alto di incidenti in cui erano coinvolti bambini pedoni e chiedeva una più rigorosa regolamentazione della strada che obbligasse mamme e bambini a non intralciare il flusso automobilistico. I codici della strada sono stati concepiti, almeno da noi, per decenni come regolamenti per difendere i veicoli dall’ingombro dei pedoni e per affermare un principio mai dimostrato e cioè che le strade urbane sono delle automobili.

Spacciatori di eco menzogne
Forse un giorno i nostri discendenti resteranno sconvolti vedendo foto delle nostre strisce pedonali, l’invenzione più ipocrita del secolo, che disegna sulla strada un ponte fittizio e precario dove possono passare a singhiozzo i fragili corpi degli esseri umani. E penseranno a noi come a degli esseri in una perenne guerra civile. D’altro canto è una guerra che abbiamo esportato. Ad Hanoi, in Vietnam, ci sono stati più morti nel traffico negli ultimi dieci anni che tutti i morti della guerra: l’effetto dell’arrivo del traffico motorizzato in città abituate a vivere per strada, ad usare la strada come primo teatro della vita e dell’incontro. Insomma stupidità e guerra, le premonizioni presenti nelle scene di traffico dei film di Godard o di Fellini, nelle descrizioni della autopista di Cortazar. Ma sono passati cinquant’anni, sembra che nessuno si accorga che siamo alla fine, che ci trasciniamo verso una conclusione ridicola e disumana. Sarebbe difficile pensare ad una civiltà che si rende la vita più difficile di come facciamo noi. Ma come, il futuro che ci aspetta è tutto urbano e stiamo ancora imbottigliati nella squallida latta di lusso? Ma come?
L’Italia, un paese boccheggiante che potrebbe fare del suo patrimonio urbano una risorsa inesauribile di turismo e contemplazione, ha invece negli ultimi anni aumentato esponenzialmente il numero di automobili vendute. E’ così che l’economia tira? Ma via! Chi ci crede ancora? Il re è tenebrosamente nudo e nessuno ha il coraggio di dirlo? Invece si continua a spacciare l’idea che le Smart sono la soluzione o che lo è il nuovo motore che inquina un po’ meno di quello precedente. Non so dove sta andando il movimento ecologista italiano, forse davvero da nessuna parte, forse è un modo simpatico di creare entourage affiatati intorno a ministri fotogenici, ma oggi non è più tempo di messe in scena, di buone figure, di biospacciatori. E’ ancora tempo di imbroglioni che vogliono venderci il nucleare come energia pulita, di filosofi che sostengono che il catastrofismo è fascista.

Buone piste per zombi ciclabili
Siamo sicuri di volerci credere? Siamo sicuri che non basterebbe un ritorno banale all’evidenza? Chiunque sale in bici se ne rende conto, chiunque passeggia per strada lo sa. La bicicletta non è la soluzione al problema ecologico della città, ne è solo la spia di una impossibilità. Nessun mezzo può circolare in presenza di altri mezzi che vanno molto più veloci. La velocità di un mezzo uccide la possibilità di mezzi meno veloci di circolare. Ce lo ha insegnato Ivan Illich moltissimi anni fa. Lo abbiamo imparato a nostre spese. Bene, è arrivata l’ora di finirla. Qualunque amministrazione che prometta o realizzi piste ciclabili rende i ciclisti degli zombi da zoo urbano, come rende i pedoni birilli di un bowling tragico.
Quanti anni ci vorranno ancora perché il diritto alla sicurezza nelle aree urbane significhi questo, semplicemente, diritto a non essere investiti? Ma fin quando nessun sindaco si farà carico di questo avranno ragione gli sceriffi della Lega a spacciare la sicurezza come il diritto ad investire con i Suv gli immigrati agli incroci.
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Di Carvelli (del 10/11/2007 @ 15:23:19, in diario, linkato 1339 volte)
Mi piace chi sta nella letteratura messo di profilo. Se c'è una foto di gruppo chi non sta in primo piano. O meglio, non cerca di starci. Mi sta bene anche una voce fuoricampo. Chi dice cose che sente come pressanti, urgenti. Chi dice cose urgenti e si capisce. Campi di analisi, di una analisi anche scostata. Mi piace chi sta da una parte. Non in disparte - magari un disparte dove si viene più notati o si spera. Mi piace chi sta nella letteratura o meglio sta alla letteratura come un rigagnolo al mare. La mia enciclopedia, la mia antologia della letteratura è fatta di questa selezione. Una scelta così: così i libri, così gli autori. Il criterio è questo. Non credo che serva pronunciare con pienezza di bocca la parola "letteratura", appellarsi alla santità o al trivio, per avere garanzie di appartenenza. Letteratura è cercare non intercettare. Stare lì fermi e che qualcosa di buono e nuovo arrivi: non questo. E questo "non questo" riguarda pure la critica se vuole avere un ruolo vero, effettivo, reale, costruttivo. La critica deve cercare e non accontentarsi di ricevere. Deve scegliere non assecondare o approvare. Scrivere nell'onda e per l'onda: questo mi pare il male più grave. Bisogna saper navigare non essere navigati e per farlo rischiare, dissentire, stupirsi. E stare di profilo, appunto, non in faccia agli obbiettivi.
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