Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 07/06/2006 @ 14:22:49, in diario, linkato 1004 volte)
"Sì ho parlato a troppa gente, oggi questo mi sorprende; ogni persona è stata per me un intero popolo. Un così immenso altro mi ha reso me stesso molto più di quanto avrei voluto. Adesso, la mia esistenza è di una solidità sorprendente; anche le malattie mortali mi giudicano coriaceo. Me ne scuso, ma è necessario che io seppellisca qualcun altro prima di me."
(Maurice Blanchot - La follia del giorno - Edizioni L'Obliquo)
In questo momento, da qualche parte c'è un bar che vive come un universo a sé. In una periferia operosa o in una borgata sonnolenta. Un bancone attorno al quale le aritmie si fanno ordinazioni o le poche parole hanno l'effetto di un comando solito. Da qualche parte s'inizia da una tazza. Qualcosa di caldo o di freddo, l'uso dell'alcol come un sole che sorge sul lavoro - e parliamo di lavori senza padrone. Le tazze tutte uguali; anche il caffé al vetro ha la trasparenza abituale e persino la commistione gradata è servita in quel cilindro stretto e scanalato alla base e appena più largo e liscio all'uscita, lì dove si poggiano labbra senza pentimento. In questo momento da qualche parte tovagliolini afferrano lieviti, cornetti, bombe fritte dopo averle scelte da un libro sempre nuovo premesso da interlocutori come "vediamo cos'è rimasto" o "vediamo cos'hanno portato". E dopo c'è chi esce e chi entra. Un flusso un po' solito e un po' no come rappresentazione fedele di vite anche molto monotone (ché nessuna vita lo è fino in fondo). Porte che si aprono e si richiudono, scontrini fatti a mente, tavolini da liberare, pezze sul bancone. Riordini. In questo momento.
Gli amici di www.ramificazioni.com hanno pubblicato una bella intervista ad Andrej Tarkovskij un regista russo che amo moltissimo e di cui lessi anni fa un contributo di scritti cinematografici uscito per la Ubu libri. Ci sono immagini nei suoi film che non possono essere dimenticate. Come queste
Nel segnalare l'intervista segnalo anche il prezioso impegno di questi amici della provincia salernitana. www.ramificazioni.com/modules.php?name=Content&pa=showpage&pid=51
Nulla precipita, semmai cade. Non tutto va a terra infrangendosi. A volte le tazze si sbeccano a volte rimbalzano. E i bicchieri, lo stesso. La certezza non è data neppure dalla statistica, figurarsi dal timore. Bisogna osservare attentamente le piroette delle cose e se è possibile - solo se lo è - allungare la mano a raccogliere prima che il pavimento dia il responso. Ma nulla sai prima. Nulla. Quel che cade cade. Accade. Quel che si rompe si rompe. Succede. Non sempre i cocci non servono.
Queste immagini - ispirate a una poesia di Valerio Magrelli - sono di Elena Cantaluppi (e vengono da exibart)
di letture e scritture, a cura di giulio mozzi. Il nome vibrisse è stato trovato da Mauro Mongarli.
01.06.06
Roberto Carvelli, Letti
di Alessio Brandolini
Letti (Voland, 2004) è una raccolta di 100 brevissime storie che tracciano il percorso di vita dell'autore, Roberto Carvelli (Roma, 1968), avendo sempre come punto di partenza il letto: quello dove si è cresciuti, o quello dove immobile giaceva il nonno con il vestito buono "che qualcuno gli avrà infilato lungo un corpo senza altra resistenza che il peso morto". Nel libro si racconta di giacigli di paglia, o costruiti sugli alberi e persino di letti fatti di parole: "frasi di cortesia le lenzuola, il materasso un doppiosenso insistito". E poi letti sul soppalco, d'ospedale, e persino "il letto tra i letti", in un convento sconsacrato sui monti della Tolfa.
Storie brevi dove si racconta di passaggi e di luoghi, di persone e di ricordi, che raramente superano le due pagine, ridotti all'osso, all'essenziale eppure la linga è sempre raffinata e tesa e abile nel tracciare piccoli mondi, ma cesellati in modo preciso.
Roberto Carvelli, vive a Roma, dove è nato nel 1968. Ha esordito nel 2002 con "Bebo e altri ribelli. La rivoluzione spiegata alle commesse" (nonluoghi libere edizioni). Poi ha pubblicato "Perdersi a Roma. Guida insolita e sentimentale" (2004, edizioni interculturali) e "La Comunità Porno. La scena hard italiana in presa diretta" (2004, Coniglio Editore).
Roberto Carvelli, Letti (Roma, Voland, 2004, pagg. 112, euro 10)
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LETTI, ROBERTO CARVELLI La storia della propria vita raccontata attraverso i letti
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L’IDEA ALLA BASE DEL VOLUME È SEMPLICE: NARRARE, O MEGLIO: RIASSUMERE IN FORMA DI prosa creativa, la storia della propria esistenza – e cioè dell’esistenza di tutti noi - attraverso il filtro dei... letti che ciascuno ha attraversato, amato, condiviso, nei quali si è andato a rintanare nel momento del disagio, della paura, del timore di non riuscire a varcare la linea d’ombra fatidica che separa la giovinezza dall’età adulta. I letti, insomma, interpretati come rito di passaggio, occasione di cambiamento, momento di transizione tra un’esperienza e un’altra. C’è stato il letto del pianto e quello del riso, quello della riflessione e del rimpianto. E poi, a ben guardare, ci sono alcune sorprese. Chi di noi ricorda il primo letto, quello che arriva subito dopo la culla dell’infanzia? Quel letto corto che, ad un certo punto, va tolto di mezzo? Quello che con un tetto di lenzuola abbiamo trasformato in capanna teatro dei primi giochi? Il vortice della vita tutto corrompe, travolge, rende vano. Carvelli non ci sta e prova a razionalizzare. Estremizzando un oggetto-simbolo e simbolico al contempo ed elevandolo a metafora della fugacità dell’essere faticosamente uomini. Affresca brevi sequenze sull’atto del dormire viste e vissute come opportunità di evoluzione anche spirituale, cui dedichiamo un terzo della nostra vita (questo dicono le statistiche). Perché vi è altresì molta poesia, o meglio può esservi, in un letto, in una coperta rimboccata amorevolmente, nella lamella di sole che filtra dalla persiana e ferisce lo sguardo. L’amore – sempre lui – la fa da padrone anche ed ovviamente quando di parla di letti. Ci sono i letti dell’amore da soli, quelli dell’amore in due e dell’affrancamento (fuga?) dal nucleo familiare originario; i letti dell’eros e quelli del sentimento vero e puro, di quello consumato e di quello solo immaginato. Ci sono poi le più strampalate ed originali abitudini del sonno, la tortura dell’insonnia (un suicidio differito nel tempo?): stralci di un’esistenza per lo più orizzontale, perché a letto – diciamo il vero – spesso ci siamo anche annoiati. Abbiamo fissato il soffitto con la luce accesa, abbiamo pregato in ginocchio, coi gomiti adagiati sul materasso... abbiamo divorato libri... ci abbiamo mangiato e smaltito sbornie... e c’è infine l’ultimo dei letti, forse il più importante, quello che è l’anticamera del gran viaggio verso la pace eterna. Dal punto di vista meramente stilistico, bisogna ammettere che non era operazione facile dare struttura narrativa all’idea centrale di questo libro. Era forte il rischio di banalizzare, d’essere prevedibili, ma il garbo del lessico selezionato dall’autore e certa raffinatezza nel mosaico rovesciano la prospettiva fino a farne opera d’arte.
Roberto Carvelli, Letti, Voland, pagg. 116, Euro 10,00
Fernando Bassoli 29-01-2006
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KAMASUTRA IN SMART, ROBERTO CARVELLI Una storia d’amore a tre: lui, lei e la Smart
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MINIMALISMO? COME GIÀ EVOCATO DAL COGNOME, CARVELLI POTREBBE SEMBRARE UN Carver de noantri, data l’attitudine ad affrescare narrazioni basate sul particulare di guicciardiniana memoria, come il microcosmo automobilistico dove – diciamocela tutta – molti di noi hanno consumato sedili alla scoperta di quel certo tipo di sesso condiviso in spazi angusti che è prerogativa degli anni giovani, quando le ginocchia non sai nemmeno di averle e ogni muscolo si flette felinamente e non ti serve nemmeno il bagno, né prima né dopo, chissà poi perché, perché il tuo tetto è il cielo, la luna ti sorride e il tappeto dove stendersi è pelle morbida di donna affamata di carne. A mio parere il baricentro dell’opera sta nell’osservazione carvelliana circa la difficoltà di trovare lavoro in questa stralunata Italia berlusconiana posttangentopoliana, postdalemiana e in sintesi postmoderna, per usare un aggettivo caro ad un certo signor Tondelli. Dice Carvelli che oggi chi ha vent’anni e cerca lavoro non si fa certo illusioni, non si esalta, procede per tentativi, abbassa la leva di una slot-machine. Nessuno osa pronunciare la parola opportunità, occasione. La speranza, ultima Dea, è morta all’apparir del vero e il sogno americano è lontano. Non ci resta che scopare. Va bene qualsiasi posto, perfino il varipopinto parallelepipedo – o qualcosa del genere – di una Smart, modello di vettura che è divenuta presto la metafora della condizione giovanile dell’Italia del terzomillennio: la casetta ambulante di un esercito di single facili al tradimento che consumano rapporti e vite con la stessa facilità con cui si entra in un autogrill per fare una pisciatina e mettere qualcosa di caldo nello stomaco, magari rubacchiando una rivista porno di straforo. Il Kamasutra è roba vecchia: oggi imperversa lo smartsutra. Credo che dobbiamo ripensare la nostra società prendendo a riferimento il cap. 4 di questo libro, nel quale “il denaro non può essere sempre il termine della questione”. Perché in un mondo dove le auto sono sempre più piccole – e così le case – finiscono per essere più piccoli anche i sentimenti. Che nascono già con l’idea di poter/dover durare poco. Come i troppi prodotti che la pubblicità ci sbatte in faccia senza pausa. Si scrive: usa e getta, si legge consumismo. Oggi più che mai: c'est la vie.
Roberto Carvelli, Kamasutra in smart, Coniglio Editore, pagg. 63, Euro 5,00
Fernando Bassoli 25-02-2006
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Ancora metro, ancora un libro. Qui la lunghezza non collima. Da qui a lì 57 pagine ma non il libro intero che è PHILIPPE GRIMBERT "Un segreto" (Bompiani) che è un Premio Goncourt des Lycéens. Distolgo lo sguardo dalla pagina solo quando un ragazzo racconta ad un suo compagno di scuola una disavventura d'aula. Hanno professori diversi e il brufoloso e occhialuto ragazzo alto dice all'altro dell'appello con accento greco di un suo nuovo (nuovo?) professore. Forse un supplente? Lamenta la strana pronuncia e le risate a seguire della lettura dei cognomi. C'è da crederlo l'imbarazzo: sono discordanze che feriscono alla loro età, effrazioni del proprio profilo, imbarazzi. Non posso non rimbalzare questa rabbia (sia pure partita da considerazioni utilitaristiche e comprensibilmente difensive) razzista su quella con cui l'autore ricorda la perpetuazione del genocidio e "il dolore dell'essere ebrei" in uno scambio di lettere all'anagrafe come un colpo di spazzola lessicale su una condizione di infinito dolore e vergogna esistenziale. Una cattiva pronuncia, dunque, può portare dolore o salvezza.
Un libro preso a caso da una libreria non tua. Un libro per un viaggio. O, meglio: un libro un viaggio. Un libro non tuo e che, quindi, dovrai restituire. Un libro con già delle indicazioni di lettura. Sottolineature, frecce. Scelgo di leggere quello più sottolineato. Il titolo della raccolta è "Per grazia ricevuta", l'autrice Valeria Parrella. Per ricevere una grazia: sarebbe un titolo migliore per questa mattina incerta ma provo a guardare al futuro con certezza più che speranza. Ma PGR era anche il titolo di un vecchio racconto del mio primo libro oltre - meglio - ad essere il titolo di un bel disco. Ma il racconto si chiama "L'amico immaginato" e dura una metro. Da una fermata all'altra. Salgo all'icipit e scendo all'explicit. Chissà se ricorderò il racconto o il viaggio o questo viaggio racconto. O la pecora in formaldeide con cui mi connetto e che mi ricorda il bellissimo MADRE di Napoli visto (visto...tre quattro mesi fa?). Per ora mi perdo nell'immaginazione degli amici, nelle amicizie immateriali. Nell'immaterialità dell'incontro. Chissà se sono l'amico immaginario di qualcuno?Che mi ricordo lo sono stato. Che forse lo sono ancora. Provo a chiedermi se questa concentrazione sulla pagina mi esclude dalla consapevolezza di uno sguardo (terzo? il secondo sarebbe quello mio sul racconto?). Mi ferma alla considerazione del bisogno della terzietà. Il due non conclude, oppone. Forse serve un tre (immateriale, immaginario, mistico, religioso). Serve un ancora, serve un in più. Forse. Ma il racconto dura una metro e questi pensieri non finiscono. Forse neppure si muore. Forse da qualche parte qualcuno un giorno sceglierà la nostra vita per indossarla e prima l'avrà osservata come noi questa pecora di Hirst. Forse no.
Di Carvelli (del 31/05/2006 @ 09:26:56, in diario, linkato 1640 volte)
Un messaggio nel bagno dell'ufficio
LA CARTA DEL COPRITAVOLETTA
NON DEGRADA RAPIDAMENTE
NELL'ACQUA, SI PREGA PERTANTO
PER EVITARE DISSERVIZI A
DISCAPITO DI TUTTI DI NON
GETTARLA NEL WATER.
Normalmente quando ci si trova a dover scrivere questi messaggi, in un ufficio, si crea un capannello di menti improvvisate parolieri. Ogni frase è sbagliata o non è ancora quella. La giusta. Quella che tiene in considerazione i principi basilari delle buone maniere e la fermezza necessaria quando si intimano divieti. L'assembramento - l'accozzarsi di intelligenze artificiali - contiene sensibilità distinte che dissentono le sensibilità altrui. Ragion per cui la scrittura si rivelerà un terribile acclararsi di indecisioni. Il ruolo più ambito e fortunato resta quello dell'estensore del processo verbale (mai titolo sarebbe più appropriato alla mansione) che deve solo avere molta carta, un buon pennarello e necessaria pazienza e scrivere solo quando un ehhh della maggioranza approva d'ufficio. In ufficio è così.
Di Carvelli (del 30/05/2006 @ 09:17:42, in diario, linkato 1503 volte)
Un film mi piace o non mi piace. Un film mi stride, mi lascia perplesso. Un film cambio canale, per una frase che non mi torna, un'incongruenza, un'anomalia della storia, cattiva recitazione (come se fosse "cattiva digestione"), cattivo doppiaggio (che si scatena nei film non continentali come qui, per cui sembra che un cinese sia un cletino, un giapponese un automa, un peruviano una statuetta di pancia ventriloqua). Un film qualcosa non mi torna, un film esagerazioni. Ma poi mi seducono dei particolari o mi lascio ammaliare da un piccolo rito ripetuto. Un piano sequenza lungo di un amore circolare che gira i palazzi e ritorna nel giro di un coito per riconoscenza. E il film può non essere tutto bello, tutto interessante, tutto giustificato. Può non avere stellette e premi ma ha avuto un guizzo che rimane. Come il tanto vuoto, i muri screpolati, la bandiera che si alza con una procedura sempre uguale di monomania militare. Un film può essere anche una sequenza che ti servirà a pensare altro o ricordarlo per un click che ti ha fatto scattare. E potresti sospendere il giudizio, non pronunciarti in maniera definitiva ma far valere questo piccolo premio di qualche fotogramma.
Di Carvelli (del 30/05/2006 @ 08:34:36, in diario, linkato 1480 volte)
Il cappello da cow boy e gli stivali di El Paso. Le mani in tasca. Gli occhiali fumé, da dietro occhi annuiscono di sottecchi. La vita nelle basi militari "che poi ti prendono per strano ma in quei locali lì...beh lì sì, lì nessuno ti dice niente...ché se vai in giro vestito così la gente commenta. Alla gente non piacciono gli americani. Cioè non in queste manifestazioni..." Quei locali in cui si trasporta una mitologia (nel suo caso una nostalgia, anche se breve), quei locali - dicevo - sono un avamposto del Grande Impero. Luoghi in cui si sente la forza, la certezza. "Lì capisci cosa vuol dire essere americano. Lì sai cos'è essere membri di un continente di forza." Un contingente? "Lì capisci cosa vuol dire essere per salvare il mondo dalle dittature..." (l'inflessione veneta) "Ché il mondo ha bisogno degli americani mica viceversa... Ché gli americani già sono il mondo. Anche questo qui è il mondo americano."
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