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 il letto di angelo... di Carvelli
 
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L'amore è come l'alcool, più sei impotente e sbronzo e più ti credi forte e scaltro, e sicuro dei tuoi diritti.

Louis-Ferdinand Céline
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 18/03/2005 @ 15:17:26, in diario, linkato 964 volte)
Bisognerebbe cadere come un copro morto che cade e fare una impronta a terra che duri per millenni, intatta, come se fosse il calco di un fossile o un mammut nel ghiaccio. Poi rialzarsi come un organismo nuovo e andare in giro come uno spettro allegro.
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Di Carvelli (del 18/03/2005 @ 09:51:34, in diario, linkato 1000 volte)

 

“non spandere realtà sulle poesie/ non spandere poesie sulla realtà/ solo scrivere poesie,/ vere poesie”

Søren Ulrik Thomsen
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Di Carvelli (del 18/03/2005 @ 09:11:06, in diario, linkato 955 volte)
Una lunga interminabile fila di tram accodati verso il nulla. Immobile forma perpendicolare continua di ferro arancione che si regge ai fili. Roma stamattina. Di persone in fuga e in fila. Alla ricerca di una sostituzione motoria alle fermate che, passate a piedi, sembrano un'irrisione e una via crucis. Oggi scioperi.
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Di Carvelli (del 17/03/2005 @ 16:54:09, in diario, linkato 1017 volte)

La compassione del vero scrittore

di Sandro Veronesi

sandro onofri images.jpg «Ma serve ricordare?». Si chiude così, con questa domanda terribile, Cose che succedono , il volume postumo di Sandro Onofri che raccoglie il meglio della sua attività di reporter, svolta tra il 1992 e il 1999, anno della sua scomparsa. E Sandro Onofri era uno dei pochi scrittori che potesse permettersi di farsela, questa domanda terribile, senza che suonasse anche solo vagamente retorica o demagogica. Credo di poter dire questo perché ho conosciuto Sandro fin da prima che entrambi diventassimo scrittori, quando già in lui pulsava un'integrità veramente rara e radicale, quel che si dice «essere a posto» rispetto a qualsiasi cosa ti possa riservare il destino. Fin da allora, alimentati com'eravamo tutti e due dal sogno di scrivere, e senza che nessun editore ci avesse ancora pubblicato una riga, la sua statura morale mi stordiva, mescolata com'era col talento, la pazienza e l'umiltà.

Essere nelle sue stesse condizioni mi rassicurava, ecco, perché di lui ho sempre pensato una cosa che purtroppo non gli ho mai detto, e che credo gli sarebbe piaciuta, per quanto Sandro amava i fiori che ancora spuntano ogni tanto nei campi sempre più aridi del calcio moderno; di lui ho sempre pensato la cosa che disse Vialli di Angelo Peruzzi, per esprimere quanto quella presenza al suo fianco lo facesse sentire forte: «Io e lui alla guerra contro tutti»: ecco cosa ho sempre pensato di lui. Io e lui alla guerra contro tutti. E lui adesso non c'è più.

Ci sono i suoi libri, però, e questo Cose che succedono (Einaudi stile libero) era veramente necessario, visto che i testi che lo compongono aspettavano solo la cura di una mano rigorosa capace di ripescarli dal suo computer e di selezionarli. Dà conto, questo libro, della maturità con cui il suo sguardo sapeva posarsi su ogni vicenda e su ogni storia, anche la più imbarazzante o inaccettabile, senza piegarsi mai al vento dell'emotività, e mantenendo intatto lo stupore che, anche in chi sa come va il mondo, il mondo non può non provocare. Dagli spalti dei grandi stadi italiani ai campetti di periferia, dai sobborghi riarsi della Roma di fine secolo all'immutabile Casbah tunisina, dalle riunioni di condominio ai veglioni di capodanno, tutto è stato per Sandro Onofri oggetto di una profonda curiosità morale che può approdare indifferentemente, ma sempre del tutto giustificatamene, a ritratti caldi e esilaranti come a resoconti freddi e terrificanti, a seconda che lo sguardo si posi su un vicino di casa o su un manipolo di ultrà nazisti. Perché questo è il libro di uno che accetta senza quasi mai approvare, e che capisce senza quasi mai condividere o pontificare.

E' molto difficile vivere lealmente queste contraddizioni, e ancor più lo è darne conto con la scrittura, strumento assai insidioso in questi casi, per quanta ricchezza rischia di aggiungere a una cosa che succede, corrompendone così la pura, spietata, e a volte perfino miserabile oggettività. E la pietas che traspira da ogni singola pagina, per gli uomini e perfino per gli spazi aruvinati che incappano nello sguardo di Sandro, quella pietas non è una protezione di chi, calandosi dall'alto nella realtà bruta, se ne tenga a distanza compatendola; è piuttosto l'essenza stessa della compassione, il coraggio di chi, dinanzi agli altri, anche agli altri apparentemente più lontani e impraticabili, sa quale risposta dare alla domanda che sempre lo minaccia: «Perché io sono io e non sono lui?», è la domanda. «Ma io sono lui», è la risposta. Una specie di motto per Sandro Onofri, un esergo fuori testo buono per questo suo libro bellissimo come per tutta la sua vita. Il ricordo del suo passaggio per questa terra.

Ma, di nuovo, serve ricordare? Non sarò certo io a sporcare l'autentica, tremenda incertezza con cui, fuori da ogni retorica, Sandro se lo chiede alla fine di questo libro. Non si sa, ecco il punto; non si sa se serve o no. Però si sa che preghiamo, tutti quanti, tutti i giorni, perché alla fine serva; e se serve, allora credo che, anche più dei suoi romanzi o degli altri suoi libri di non-fiction, Cose che succedono sia la più nitida fotografia di Sandro Onofri, la più a fuoco, la più completa, perché di lui si possa ricordare (stiamo pregando che serva) non solo quanto era bravo come scrittore, ma che persona era.

Pubblicato da franz krauspenhaar - 13.03.05 14:04

www.nazioneindiana.com

 

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Di Carvelli (del 17/03/2005 @ 14:44:06, in diario, linkato 1003 volte)

Su segnalazione di Mattatoia (http://mattatoia.clarence.com/ ) segnalo alcuni versi e un libro di poesie meravigliose uscito per Donzelli nel 2004 che presto risaccheggerò. Grazie Matt

 

 

“Ricordo l’odore/ nel suo appartamento/  il vento alla stazione vicino al porto/ sono vivo/ trovo vecchie poesie/ lettere ricordi/ 10 anni 8 anni 7 anni 1 anno/ sono vivo/ scrivere all’ufficio/ il latte acido/ piango/ sono vivo/ piango/ vivo”

Søren Ulrik Thomsen
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Di Carvelli (del 17/03/2005 @ 12:34:11, in diario, linkato 1385 volte)
Mal di testa, due denti rosicchiati, soldi in meno, il mio cavallo azzoppato, affetto in calare... no no dite voi... aggiungete voi su questa colonnina cos'altro...
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Di Carvelli (del 16/03/2005 @ 17:06:04, in diario, linkato 899 volte)

Auguri...tra l'altro Tonino Guerra è l'autore-oggetto della mia tesi di laurea...

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Di Carvelli (del 16/03/2005 @ 16:11:31, in diario, linkato 991 volte)
Giorni fa ho sentito un tipo che parlava ad un amico e toccandosi il petto diceva: "... gliel'ho detto a lei... quest'uomo qui ti ha dato la felicità... non lo trovi un altro... se provi quest'uomo qui poi non lo sai..." e via seguitando. Mi è venuta in mente (perdonate l'associazione) una canzone di Paolo Conte "...la donna con me è molto di più di una donna qualsiasi..."
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Di Carvelli (del 16/03/2005 @ 11:48:31, in diario, linkato 1213 volte)

Fa bene alle fantasie di coppia, al portafoglio, alla quarta vertebra lombare. Da Roma a Torino, gli italiani consumano sesso fra volante e cambio guadagnandosi il record mondiale. Ora un libro spiega come sfruttare al meglio gli spazi minimi.


 
La ragazza ha vent'anni. Universitaria, svogliata, ovviamente. E magra, carina, aggressiva, scattante. Altrettanto ovviamente, vivendo ella a Roma, gira a bordo di una Smart. Con la Smart tampona un tizio, che ha 25 anni più di lei. Il tizio le piace, lo abborda; inizia con lui una storia di molto sesso. E qui inizia la parte meno ovvia: perché il sesso lei lo fa sempre, comunque e solo in macchina. Sulla Smart. Senza mai scendere. Mai? «Mai». E perché? «È una mia regola» dice all'amante. «Non vado mai a casa delle persone con cui scopo. (...) Neppure quando mi fidanzo, per il semplice motivo che non mi fidanzo».

La ragazza, che si chiama Luna, è già un piccolissimo cult. È la protagonista di una piccola storia d'amore a tre (slogan: «Lui, lei e la Smart») che il piccolo editore romano Coniglio ha mandato in libreria da pochi giorni. S'intitola Kamasutra in Smart. E a dispetto del fatto che, in realtà, le posizioni erotiche in una macchina tanto piccola siano più o meno obbligate, l'uomo seduto sul sedile del passeggero, e la donna sopra di lui, «a fare l'ascensore», ai librai italiani l'idea deve essere piaciuta parecchio, perché senza manco aver letto il racconto ne hanno prenotate 3 mila copie.

Per un autore giovane, e praticamente sconosciuto, 3 mila copie sono quasi un miracolo. Segno che l'argomento c'è. E che Roberto Carvelli, classe 1968, romano, uno coi capelli rasatissimi che gira in moto e non è pagato dalla Smart, in quelle 60 pagine ha perfettamente centrato due dei temi più cari all'italiano di oggi. Uno, la passione (specialmente romana) per la citycar della Mercedes. Due, il gusto (assolutamente nazionale) per il sesso in macchina.

Sostiene infatti un sondaggio Demoskopea del dicembre 2004, condotto per il circuito Rcs Broadcast, che il luogo amoroso più frequentato dagli italiani, dopo il letto, sia l'automobile. Il 38 per cento vi fa regolarmente l'amore (qualcuno ha dichiarato persino di essersi espresso al meglio su un trattore): più che in salotto, più che sul tavolo della cucina o nella vasca da bagno, gli adepti del car-sutra sono così diffusi che il sesso a quattro ruote rappresenta, secondo una ricerca Euro Rscg Mcm del 2003, un'esperienza comune all'88 per cento dei connazionali. Deteniamo, praticamente, il record del mondo.

«Fanno l'amore in macchina non solo gli scambisti, per cui l'automobile è una sorta di prolungamento corporeo, e gli appassionati del sesso mercenario, la cui compravendita si svolge principalmente sulla strada» riflette Chiara Simonelli, docente di sessuologia alla Sapienza di Roma. «L'auto è diventata l'alcova per eccellenza degli adulteri. In tempi di crisi, chi fatica ad arrivare al 27 si sente in colpa a spendere soldi per uno sfizio, fosse pure per un albergaccio. E quindi...». Quindi, a nobilitare il paesaggio urbano, riecco le automobili con i giornali sui finestrini a proteggere l'intimità degli amanti. «È un fenomeno così diffuso che il ministero della Salute dovrebbe spiegare ai cittadini che le citycar, che non hanno i ribaltabili e dunque costringono l'uomo a una posizione seduta, sono in assoluto le migliori per fare sesso. Proteggono la quarta e quinta vertebra lombare dagli schiacciamenti, evitando il colpo della strega» ride il conduttore Gianni Ippoliti, appassionato di microcar.

E allora ecco a Napoli Tony Tammaro che spopola cantando «il su e giù sulla 127 blu» al Parco della rimembranza; a Roma c'è il Gianicolo e Monte Mario, ci sono i parcheggi di scambio e quelli degli ipermercati; a Bologna si va in collina, a San Luca, ma il deputato ds Franco Grillini, presidente dell'Arcigay, dice che «trovare un luogo sicuro per fare l'amore è un vero problema per tutti», difatti presenterà una proposta di legge per riproporre quelli che Cicciolina, ai suoi tempi, chiamava «i parchi dell'amore». A Palermo, nelle due gallerie che portano al Monte Pellegrino, «a ogni ora del giorno c'è una fila ininterrotta di macchine-alcova parcheggiate» racconta Anna Tronca, in arte Berbera, responsabile per la Mondadori degli Oscar erotici insieme al marito Hyde. Anche lui, ovviamente, ha scritto un racconto erotico su una Smart.

CINQUECENTO: DUE CUORI, UN FRENO

Ricordi e aneddoti erotici dei fan illustri. Molto, molto nostalgici

Una primipara chiede al suo ginecologo: «Dottore, qual è la posizione del parto?». E lui: «Signora, ma è la stessa del concepimento». «Uh, mamma mia, vuol dire che dovrò partorire nella 500 con i piedi fuori dal finestrino?». Il mito dell'intramontabile utilitaria Fiat come prima alcova degli italiani si tramanda anche attraverso una barzelletta anni Sessanta. La rievoca un cinquecentista doc, Renzo Arbore (ne possiede una verde acqua), che racconta anche l'amore ai tempi della 500: «Per rendere ribaltabili i sedili bastava una piccola spesa in più. La spalliera dei posti posteriori si abbassava a libretto, tipo talamo. Per il cambio c'erano dei cappucci di legno, un po' fallici, sicuramente meno spigolosi dell'originale. Un plaid messicano, venduto insieme ai pezzi di ricambio, era quasi d'ordinanza per andare in camporella. La mia posizione preferita? Sui sedili davanti, ci si poteva mettere anche in ginocchio».

Per molti è stata il simbolo della libertà: «Abitavo a Palermo, in caserma, per me la 500 era un'oasi privata, un luogo di trasgressione psicologica» confida Rita Dalla Chiesa. «Col fidanzatino dell'epoca ci scambiavamo effusioni parcheggiati in riva al mare, c'era persino il mangiadischi. Il momento più doloroso era quando mi sedevo sulle sue gambe, il cambio sulla schiena o sul fianco era inevitabile». Ognuno aveva la sua tecnica per ritagliarsi spazio: «Il segreto era fare l'amore con uno sportello aperto, possibilmente vista mare» racconta Luciano De Crescenzo.

È stata anche una vettura bipartisan: l'avevano sia Teodoro Buontempo (An) che Giuliano Pisapia (Prc). Il primo ci ha persino vissuto un paio d'anni, quando giovanissimo non poteva permettersi casa a Roma: «Era eccitante, altro che Smart. Il tettuccio apribile dava la sensazione di ampiezza: sembrava di stare all'aperto, ma al tempo stesso essendo piccola creava complicità con le ragazze». Pisapia invece doveva spartirsi la 500 blu con i fratelli più grandi: «È stata contemporaneamente luogo di riunione con gli amici e di approcci sentimentali con la prima fidanzata».

Ad altri ricorda la vigoria dei vent'anni: «Ne avevo una modello L, lusso, nera, molto trendy per l'epoca. La perversione erano i sedili ribaltabili di serie» sostiene Giorgio Faletti. «Già dopo mezz'ora di petting c'era l'effetto sauna, con i vetri coperti di sudore. Dicono che tanti della mia generazione sono diventati gay. Non bisogna stupirsi, vista la pericolosità di freno a mano e cambio». Non a caso i più smagati come prova della loro abilità amatoria esibivano la leva del cambio svitabile.
Donatella Marino
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Di Carvelli (del 15/03/2005 @ 15:14:02, in diario, linkato 1190 volte)

 

N i c k C a v e
Lacrime per Sokurov

Un amico mi invita a vedere l’anteprima di un film russo a Soho. Gli chiedo che genere di roba era e lui dice: "Be’, non succede niente di particolare e poi qualcuno muore. Vieni. Lo adorerai." Il mio amico è il distributore del film in Inghilterra, per cui mi sento in dovere di andarci. Starsene seduti davanti a un film russo è il tipo di cosa che si fa per gli amici. Arrivo in ritardo e mi faccio strada fino alla prima fila mentre finiscono i titoli di testa. Dopo dieci minuti attacco a piangere in silenzio e vado avanti così per tutti i 73 minuti del film. Ora, ho pianto altre volte al cinema, ma non ricordo di avere mai pianto così tanto, senza fermarmi, per tutto un film. Quando il film finisce e le luci si accendono una donna con gli occhi rossi seduta dietro di me mi allunga un Kleenex e mi chiede se mi andrebbe di scrivere di questo film per una rivista.

Il film si intitola Madre e figlio e la regia è di Aleksandr Sokurov. Racconta gli ultimi giorni di una madre morente (Gudrun Geyer) e del suo figlio adulto (Alexei Anaishnov). È mattina. La madre vuole che il figlio la porti a fare un giro, il che significa trascinarsela dietro attraverso una serie di paesaggi onirici, dopodiché – tornati alla loro casa nuda e isolata – lui le dà da mangiare e la mette a letto. Poi esce di casa per fare una passeggiata da solo e quando torna scopre che la madre è morta. Tutto questo dura 76 minuti. Ma ciò di cui siamo testimoni in questo lasso di tempo è di tale bellezza e tristezza che piangere, per me, è l’unica reazione adeguata.

Madre e figlio è un film sulla Morte e sull’Amore e sulla Grazia. L’amore tra questa madre e il figlio trascende l’amore ordinario, perché è purificato dall’imminenza della morte. La morte li attende entrambi con assoluta certezza: la madre che morirà e il figlio che verrà lasciato solo. Il tempo parrebbe avere rispettosamente rallentato, in modo che l’accorto passo dell’amore possa distendersi tranquillamente: non vi sono azioni frettolose, perché servirebbero solo a far giungere più velocemente la morte. I personaggi hanno raggiunto uno stato di grazia emotiva e spirituale. Sembrano slegati dalla propria storia, alieni al proprio ambiente e indifferenti al mondo alle loro spalle. Esistono solo gesti di conforto, d’attenzione, di tenerezza. Il figlio pettina la madre, le rimbocca le coperte, la nutre con un biberon. La madre risponde con buffetti e carezze, tutto ciò che le sue deboli forze le consentono.

È una relazione che, in un certo senso, non dovrebbe essere vista. È sacra, religiosa, scevra da ogni pruriginosa intrusione dell’analisi novecentesca. È una visione d’umanità che si è fatta di fatto trascendente; ma Sokurov non tiene sermoni sulla natura tragica della morte. La morte incombe pesantemente su tutto, intristisce ogni gesto, appesantisce ogni azione. Anche il paesaggio sembra essere in lutto per l’immanente dipartita della madre. Quella che vediamo è la Passione mostrata in tableaux che a volte riflettono la storia di Cristo: non la passione della madre malata, ma quella del figlio, non del morente ma di chi viene abbandonato. I dialoghi sono stranamente ineffabili, come se l’amore e la comprensione dei protagonisti avessero reso inutile il linguaggio. Quando conversano, le loro parole sembrano mancare di uno scopo qualsiasi. Non confortano, non chiariscono, perché tutto viene detto nella sapienza di ogni gesto. C’è psicologia nelle parole, c’è complicazione e dolore. L’esempio migliore è quello dell’ultima conversazione, in cui discutono le ragioni per morire e quelle per vivere. Il dialogo è futile e crudele, e serve solo a riaprire le ferite della perdita.

La madre dice: "È così triste. Comunque vadano le cose, anche tu dovrai passare attraverso le sofferenze che ho subito io."

"Adesso dormi, mamma" dice il figlio. "Fatti un sonnellino. Io torno presto."

Il figlio esce di casa e cammina nel paesaggio astratto che la circonda. È in queste scene lunghe, lente, pressoché immobili che il film raggiunge un livello di bellezza mozzafiato. I paesaggi di Sokurov non portano il fardello di alcuna pretesa realistica. Le sue scene sono trasformate in tele cinematografiche, molto più vicine alla pittura che al cinema e inondate da una luce artificiale e opalescente. Queste visioni oniriche ricordano le opere dei pittori romantici tedeschi del primo Ottocento, in particolare quelle di Caspar David Friedrich, in cui tutto è ammorbidito da una lucentezza lattiginosa. L’ampiezza e il mistero di questa natura accresciuta crea una spiritualità indipendente da qualsiasi formula della tradizione cristiana. E la cura che Sokurov pone nella realizzazione di queste scene fastidiosamente lavorate echeggia la cura con cui i suoi personaggi si trattano l’un l’altro, la devozione al dettaglio, la tranquilla tenerezza, l’amore.

A tutta questa bellezza è assegnato un ritmo, una scansione temporale dettata dall’intrusione della morte. Ogni azione, ogni gesto – lento, dolente, importante, sacro – concede allo spettatore il tempo di restare incantato e sedotto dai suoi potenti e serissimi impulsi. Assistendo a questo film siamo costretti a confrontarci con l’ineluttabilità della nostra morte, e di quella altrui. Vengono risvegliate dentro di noi delle emozioni che il cinema ha trascurato a lungo.

La mia prima reazione al film è stata di scoppiare a piangere per la tristezza di tutto questo. E quella sensazione – da allora – non l’ho più dimenticata.

Nick Cave, tenebrosa rockstar austroberlinese di stanza a Londra e con le radici affondate nel blues del Mississippi, racconta Madre e figlio di Aleksandr Sokurov.

Nick Cave, dark crooner with his roots in the Mississippi blues, writes about a viewing of Mother and Son by Aleksandr Sokurov in Soho.

© Nick Cave

da www.trax.it

E mi è venuta voglia di vederlo. Ne sapete qualcosa di questo film?

 

 

 

 

 

 

 

 

 

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