Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
"Ad alcuni il sesso piace più che ad altri, lo si sa./Tu sembri amarlo molto,in verità./È bello essere ascetici,e d'indole innocente./Tu non sei di questo tipo, fortunatamente" Wendy Cope - Guarire dall'amore - Crocetti
Per una strana coincidenza ho visto un film e letto un racconto su un guardone. Il primo si chiama Hire il secondo Enoch Emery. Il primo è nel film di Leconte del 1989 "L'insolito caso di Monsieur Hire", l'altro nel racconto di Flannery O'Connor "Il cuore del parco". In nessuno dei due casi ci viene trasmessa l'idea di una malattia o di una perversione. Anche se nel film del francese (tratto da un libro di Simenon) ci si domanda dove inizia e finisce la normalità di un atteggiamento di distacco dagli altri se quello è in realtà fornito di una spiccata capacità di visione sentimentale, di vicinanza alle sorti della persona guardata. Mi ha colpito la coincidenza casuale del doppio incontro con il tema "guardoni". Mi domandavo, mutatis mutandis, quanto si possa spostare questa capacità e debolezza di visione al nostro nuovo modo di guardare sociale. Mettiamo lo sguardo su persone che non conosciamo con una abilità nuova e strumenti impensati. Un profilo di FB o di TW. Siamo con gli occhi nelle vite degli altri e non sempre con intercettazioni casuali. Spesso neppure fredde. A volte con una vicinanza che stupisce noi e chi è osservato. La domanda è: ma chi è guardato sa di esserlo? Fa in modo di esserlo? Chi è guardato, in fondo, non asseconda e incoraggia la visione di chi guarda? La profetizza?
Ho visto Romanzo di una strage e… mi aspettavo peggio. Ottima la ricostruzione scenica, buona direzione degli attori e recitazione. Interessante soprattutto la seconda linea (poco e male sfruttata la Chiatti e la brava Cescon e, alla fine, era meglio cercare nomi meno altisonanti per ruoli così marginalizzati): i giornalisti, i generali, gli anarchici e gli infiltrati. Per un ottimo casting. Più problematica la sceneggiatura e il senso di tutta l’operazione. Che serve a ribadire il teorema delle stragi di Stato e farci riflettere, ancora una volta inutilmente, sull’impossibilità di una giustizia giusta in Italia (Paese che, invece, in questo momento discetta di articolo 18 come traguardo del progresso) specie quando in questo meccanismo di svelamento entrano interessi più grandi della Nazione. Sovranazionali, diciamo così. Eppure non so se tutto questo ribadire una verità ormai diventata cunto de li cunti possa essere sostanziale al cunto stesso. Fiabe a parte forse l’uscita cinematografica inganna. Una doppia puntata tv avrebbe abbassato le aspettative. Non entro nella storia del film e nella storia della storia (in internet, dal libro di Cucchiarelli a cui si ispira il film fino a Sofri trovate molto su questo) ma ora io chiedo alla sala buia emozione e intensità che siano quelle prodotte da Diritti, Frammartino o Majewski o quelli di un film carico di tensione e sospeso in un mistero, autorialità o genere che siano. Eppure l’operazione di Giordana non è sgradevole anche se – per i motivi sopra addotti – attira ahimè nella sala un pubblico più televisivo che cinetelevisivo. Tipo la coppia agée che dietro me commenta sequenza per sequenza, ingresso di attore per ingresso di attore tutte le novità in successione. E io che mi giro e li redarguisco senza capire come il cambiamento culturale della tv e della tv on demand ci abbiano resi spettatori di comunità contenute e non più sociali. La divisione per capitoli è suggestiva e non banalizzante ma alla fine sembra di aver sfogliato una rivista, una bella rivista. Dalla quale si alza l’ennesimo giusto grido di indignazione mentre nuova indignazione monta davanti a nuove ingiustizie sociali. Un amarcord già un po’ agée.
Le oche della Checca
Quando facevo i palloncini al naso quando tiravo la coda al gatto ero piccino piccino ma così piccino che alla prima occhiata nessuno mi vedeva. Una mattina però ho sentito d'essere cresciuto ho sbirciato in giro ho infilato la porta stavolta me ne vado, vado al mio destino saluti a tutti basta con i comandi. Fuori mi sono piaciute le oche. Le rincorrevo perché volevo spaventarle ma quelle di botto si girano di botto spalancano le ali, e io che cosa dovevo fare? io allora ho pianto.
(Tonino Guerra)
Il destino di chiamarsi Filippo
di Roberto Carvelli
Il destino di Filippo è quello di essere l’uomo degli ultimi metri. Quello che nel calcio si chiamerebbe attaccante da area di rigore (piccola). Nel caso di Filippo vuol dire soprattutto essere l’uomo dell’ultimo minuto. Quello che qualcuno chiama o chiamerà a poco dall’evento. Quello che sarà invitato a una festa quando ormai i giochi sono fatti, gli altri già allertati o già partiti e per lui nessun cartoncino scritto. Una frase detta all’ultimo in mezzo ad altri discorsi. Anche nel lavoro sarà sollecitato solo quando tutti gli altri avranno detto di no. Una specie di ultima soluzione che accadrà forse solo quando tutti gli altri si saranno negati. Magari sussiegosi o contriti. Forse adducendo scuse miracolose e credibili, vaghe ma approvate nella loro nebulosità. Spesso, in verità, coincidenti con finali di Champions League, vacanze appese a ponti strategici, sabati e domeniche, festività più o meno soppresse. Lui accetterà e andrà senza tante ritrosie e smancerie e questo lo renderà l’Uomo dell’Ultimo Minuto. Ma non gli gioverebbe – né gli ha mai giovato, in verità, quando ha tentato di farlo – negarsi. Non gli porterebbe alcun vantaggio ribellarsi a quello che la Vita ha scelto per lui. Una città piccola per nascere, un accento un po’ ridicolo fuori dal contorno della sua regione, una famiglia dimessa, studi sofferti. Gli conviene accettare, essere disponibile, sgravarsi degli eventuali contrattempi e dire “vado”. Non coltivare neppure per poco il pensiero che questa convocazione tarda, in realtà, non sia accompagnata da attese. Perché Filippo è in definitiva una persona stimata. Anche nell’ambiente del suo ufficio – una piccola ma agguerrita ditta che opera nel settore elettronica – dove viene ritenuto un risolutore di problemi (si preferisce qui usare la traduzione italiana per quell’ormai indifferibile ricorso all’inglese che spopola anche nel profilo basso della società in cui Filippo lavora). Eppure a lui non viene mai destinata una missione più costruita, pensata; non gli viene offerta la possibilità di seguire un progetto dall’inizio alla fine per dire: ecco i risultati che ho ottenuto sulla sfida che mi avete lanciato (delle volte, se ci pensa, gli vengono in mente parole altisonanti e un po’ retoriche per dire di un’altra possibilità che gli piacerebbe vivere). Tutto, in quest’uomo, è improvvisazione ed emergenza. E allora eccolo che sale sul furgone, mette benzina (ma perché lo lasciano tutti a secco quando si sa che va riportato in ditta col pieno!), cerca la strada (le indicazioni che gli lasciano sono sempre vaghe) e si dirige verso la missione da tutti non voluta. Forse per strada ascolterà la partita alla radio (anche lui è molto appassionato di calcio), abbasserà più volte il finestrino per chiedere indicazioni, scenderà e prenderà tanti caffè quanti necessari per raggiungere a “svolta a destra, seconda a sinistra, alla rotonda tira dritto” (quanto ci vorrà per avere un navigatore nel furgone della ditta?) il luogo in cui operare. Se si presenteranno dei contrattempi non potrà neppure avere la fortuna di chiamare qualcuno in centrale per sapere se possono mandargli questo o quello. Il cliente, spesso, sarà un tipo spazientito da altri ritardi, da vecchie ruggini e contrattempi che altri prima di lui hanno contribuito a creare o evitato di risolvere. A volte per incompetenza, altre volte per complessità, altre ancora per brevità o faciloneria.
E allora eccolo “sì sono dal cliente” dice dal cellulare. “Ok” dice a chi dall’altra parte gli annuncia che sta lasciando la sede e che da ora in poi dovrà cavarsela da solo. “Ok” dice a un ennesimo limite alla collaborazione. “Ok” ribadisce davanti all’evidenza dell’ingrato compito. “Non si preoccupi” è costretto a dire davanti alla furia dell’uomo che ora lo sta guardando bilioso e spazientito dai tanti rimandi mentre dalla centrale gli dicono che ora se la deve sbrigare lui. “Hai capito, Filippo?” Ha capito, Filippo.
Accende bassa bassa una vecchia radio su una stazione che trasmette “solo grandi successi” e inizia a operare. Cambia stazione: “quella che trasmette solo la musica migliore”. E suda. Abbassa il volume che ormai è un bagno. “Non si può aprire una finestra?” e non si può. Sono tutte bloccate per ragioni di sicurezza, dice il titolare. Il lavoro si presenta complesso anche perché si accorge – non lo dice al tipo che lo sta guardando come un cronometro – che qualche collega prima di lui l’ha tirata breve e ha omesso di fare collegamenti necessari, ha saltato passaggi, ha chiuso alla meglio quello che invece andava prima risolto, aggirando ostacoli ma creando problemi ulteriori. Si rende conto che ora – proprio a causa di questo – il suo lavoro sarà più lungo. Si mette il cuore in pace e continua. Fa avanti e indietro dal furgone per cercare pezzi. È costretto ad arrangiare collegamenti e fili senza poterlo neppure dire al titolare della ditta che sta lì pronto ad andare in escandescenze – già lo ha fatto nell’accoglierlo – davanti a nuovi rimandi. Cambia stazione. La sua squadra – eh già questa sera è proprio Il Suo Milan che gioca – sembra essersi indirizzata verso i tempi supplementari. La partita sembra bloccata sullo zero zero e non si vede luce. Gli attaccanti stanno lì a provare in tutti i modi a buttarla dentro ma nulla. E allora ecco che, inquadrato in lontananza (se potesse vederla in tv sarebbe questa l’immagine), si vede il suo beniamino iniziare a scaldarsi. Eccolo – lo immagina Filippo – che flette e allunga i suoi muscoli quasi quarantenni. Eccolo con il sopracciglio dritto, lo sguardo fisso, le braccia che ciondolano lungo il corpo, il collo piegato a destra e a sinistra cercando un po’ di requie alla tensione del quasi ingresso. Le mani passate sulla frangetta nervose mentre i piedi sfiorano la riga bianca laterale. Ottantesimo del secondo tempo segna il tabellone e poi il suo nome e il coro disperato dello stadio. Un coro sempre più raro: quello col suo nome. Ormai un nome da panchina, da foto più piccole negli album, un ruolo più riservato, una scelta di secondo piano per tutti i club tifosi in festa, le cerimonie, le parate di stelle. Ma lui – Filippo anche lui – non se ne fa un problema. Sa che ogni volta che arriva il suo turno è atteso al gol. E non se ne fa un problema. Dieci minuti? E un gol. Cinque? Un gol almeno anche lì. Ecco cosa deve fare: segnare. Buttarla dentro, gonfiare la rete, far zompare lo stadio in piedi in un urlo liberatorio e poi tornare a casa. La doccia, le interviste, i titoli dei giornali, i colleghi della prima squadra negli allenamenti successivi. E a casa. “Deve essere il destino dei Filippi” pensa Filippo, l’altro, quello del settore elettrico. Pensa che è un nome. Che forse un altro nome e sarebbe stata diversa la vita. Ripensa ai nomi non da ultimo minuto e gli vengono solo nomi brasiliani, svedesi. Pensa a quelli dei suoi colleghi. E al suo. Filippo. Un nome e un gol. Un nome e qualche missione impossibile ma non solo auspicata, attesa. Una specie di condanna. Non alla bravura ma alla fortuna. Tutto un mondo che congiura contro di lui: il tempo (poco), la tensione degli altri (troppa) e la sua (da cancellare, subito). Ed entra. Il radiocronista si infiamma. Il suo nome brucia. Cuoce nella bocca alla voce che ora lo sta osannando nella speranza – catartica – che possa essere la volta buona che una sua radiocronaca divenga felice e passi alla storia. Anche “radiocronista” è un mestiere con le stelle. Un lavoro con una cometa che ti deve passare davanti un giorno, una sera. Una finale dei mondiali o di un europeo. Una coppa alzata. Qualche bella immagine che ti rimanga attaccata addosso, più di una foto di matrimonio di un figlio, il rispetto dei venditori sotto casa, qualche forma di riconoscibilità d’accatto. No. Serve fortuna anche lì. E la radio di Filippo, invece, si spegne. All’improvviso. Mentre l’altro Filippo “si rende pericoloso”, “arpiona”, “piroetta”, “si svincola”. Tutti gesti eccentrici e disperati quelli dei Filippi: quelli sul prato verde e quelli in mezzo a questa matassa di fili elettrici messi insieme in un imbroglio scarabocchiato. Mentre tutto questo ginepraio gli si intrica nella mani chiede se c’è una presa per attaccare la radio che sono finite le batterie e almeno quella c’è. Così lascia quel viluppo di plastica e rame e il gesto di avere un solo filo nelle mani gli sembra di buon auspicio come quello del radiocronostica che ora dice tra l’emotivo e il confidenziale “dài Filippo, è il tuo momento, tutta l’Italia te lo sta chiedendo”. E pensa all’enfasi piena di retorica con cui gli affidano queste missioni disperate, quantomeno nella ristrettezza dei tempi. Questo problema in quella ditta solo tu puoi risolverlo. Venerdì sera ore 19 e appena finisci a casa, ti puoi pure tenere il furgone (come se fosse un provilegio). Già, appena finisci. Dieci minuti un gol. Tempi supplementari un gol. Una ditta e un gol. Ecco, il destino di chiamarsi Filippo. Uno con le mani nei fili e uno che “si abbarbica al pallone”. E poi? E poi silenzio. Luci spente, voce che se ne va in un singulto e la matassa che diventa un riccio di buio nelle mani dell’altro Filippo. Mentre il titolare dice vado a vedere che succede. Aspetti che prendo la torcia. Ma il tempo passa. Ma la matassa non si districa. Lo stadio ora pare un concetto distante. Gli sembra di sentire il clac dell’interruttore che spegne il campo, che fa grigio il prato verde e lì, nella penombra, “ecco che sguscia tra gli avversari, lascia il suo marcatore sul posto” e in mano cento fili tutti uguali. Intorno solo silenzio. Intorno solo fili, buio e un caldo asfissiante. Poi, ritorna la corrente in un lampo accecante che gli disegna puntini sulla retina mentre il radiocronista urla a ripetizione “gooooool” e “fiiii-liiii-ppppo” come se fossero sinonimi. Esamina la matassa. Gli sembra di capire qualcosa. La allontana per guardarla a distanza, come per esserne sicuro e poi sì, dice, ho capito. “Che ore sono?” chiede al titolare. “Le undici e un quarto”, fa quello. “Ormai è andata, stanno finendo anche i supplementari” dice.
Ho visto e mi è (molto) piaciuto I colori della passione del regista e videoartista polacco Lech Majewski nato dal libro The Mill and The Cross di Francis Gibson. Il film è la ricostruzione in via filmica del quadro di Bruegel il Vecchio Salita al Calvario (1564). Un’incursione della telecamera e della messa in scena nella famosa tela con un lavoro di computergrafica sorprendente per efficacia non fine a se stessa che gioca sulla dimensionalità pittura/ripresa. La pellicola si costruisce come una serie di bozzetti preparatori – non solo visivi – della tragedia (salvifica?) della crocefissione che sembra preceduta e rimarcata da quella del giovane abbandonato al lavoro scarnificatore dei corvi dopo frustate e violenze dei soldati spagnoli inquisitori (i romani che condannarono Cristo). Il film è carico di simbolismi e gravido di silenzi e stasi che cercano di mettere in sintonia con l’Assoluto e col Mistero. Va detto: non è un film da ultimo spettacolo. Va detto: è un film per cui scegliere il partner giusto. Il film è ben recitato dal redivivo Rutger Hauer che interpreta il pittore fiammingo Pieter Bruegel e dalla Madonna Charlotte Rampling (scelta di attori al di sopra di ogni sospetto: viene da pensare). In un registro icastico, il pittore/regista (il binomio Bruegel/ Majewski) ci mostra il sacrificio doppio dell’uomo, la pena della resistenza al potere assassino, la lotta per la sopravvivenza tra la debolezza della carne, la leggerezza innocente nel dolore rappresentata dai musici e dai bambini, la pena del generatore (la madre che soffre la morte del figlio, Dio rappresentato in un mugnaio che guarda dall’alto senza poter e voler intervenire salvo agire sul vento per rimarcare la grandiosità del momento).
Il film del regista polacco – espatriato fino alla fine del comunismo e ora diviso tra USA e patria – non è un film formale pur essendo incentrato sulle forme: la ripresa e la fotografia del tipico paesaggio delle Fiandre come degli interni delle case nordeuropee del tempo, la grande cura della ricostruzione scenica, la riproposizione scrupolosa dei costumi. La parola stenta nel “fuoricampo” metafisico del pittore che prepara l’opera e la dipinge persino col pensiero a gesti che solcano l’aria come se cercassero una verità della visione fuori e dentro di sé. Una verità reale e una “altra”. Quella che si vede e quella che si crede. Ma l’atto della fede è qui notevolmente problematizzato dal sacrificio offerto senza clamore se non quello “penoso/pietoso” della madre.
Di Carvelli (del 30/03/2012 @ 08:56:36, in diario, linkato 1136 volte)
Voi che eravate le porte del regno dei cieli e chi non passava da voi non passava voi che eravate purissima gioia voi che eravate noi bloccati nella più grande bellezza voi che somigliavate ai cuccioli degli altri animali voi che capivate lo splendore misterioso degli animali voi che dormivate un sonno perfetto e benedetto voi che vi svegliavate ridendo voi che facevate balletti strepitosi. Voi, nostre divinità domestiche.
Nascete ancora, cuccioli. Restate. Siate. Salvate. Giurate. Siate. Siate. Siate.
[Mariangela Gualtieri, Sermone ai cuccioli della mia specie, p. 11] da www.paolonori.it
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