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Restare o andare? Suggestioni dalla Magliana di Roberto Carvelli
“Da ragazzino in quel quartiere ci stava da schifo. Voleva andarsene a tutti i costi” scrive Emanuele Ponturo ne L’odio. Una storia d’amore (fermento), e ce l’ha con la Magliana. Certo è uno strano destino quello di nascere, vivere e, talvolta, morire in un quartiere di cui leggi più in cronaca nera che in cronaca bianca. Di cui senti più per morti ammazzati che buche dell’asfalto. Tanto più che, nell’epoca in cui Ponturo scrive, la Magliana è nominata in associazione con quel “Banda della” che le ha dato più onori in cronaca (e poi in letteratura e saggistica) delle catacombe di Generosa o di quel gioiello che è la chiesetta di Santa Passera. E sono solo due dei motivi di una bellezza non secondi all’incanto del fiume che ci scorre giusto sotto. Eppure una cementificazione senza posa l’ha resa un quartiere di densità abitativa ordinatamente compulsiva. E l’ordine, in questo caso, non ha nulla di particolarmente amabile. Tutti palazzi allineati, costruiti senza una fantasia architettonica, che hanno messo insieme famiglie una sull’altra, una a fianco all’altra e nessun posto per parcheggiare. “Hotel Magliana. Una volta fuori dalla birreria, Stefano si era incamminato a piedi verso l’albergo. Quando era arrivato, non immaginava che sarebbe stato così facile trovarne uno proprio da quelle parti, pensava di doversi spostare verso il centro. E invece l’insegna stava lì, a poche centinaia i metri. (…) Un’entrata anonima, un lungo corridoio, tendaggi pesanti, la statua di una Venere a lato della reception, una riproduzione kitsch fatta di gesso. (…) Un albergo nella periferia della Magliana, nel culo di Roma. (…)”. In mezzo al nulla ripetuto di questi palazzi persino un albergo che, agli occhi del protagonista di questo nero Cappuccetto Rosso, Stefano, arriva come una sorpresa. Sì, anche nella sua Magliana adolescenziale c’è un luogo in cui distendersi anche se è per fare l’amore a ore. Un amore che qui diventa un’ossessione forse proprio per tutta quest’ansia di costruire delle strategie di fuga. Reali e dal reale. Eppure la Magliana potrebbe essere bella. Vitale in tutti i suoi insistiti negozioni di cubatura sproporzionata. Arredamenti, cucine, moda. Supermercati a sfinimento: e viene da pensare a quanto quest’ansia alimentare spesso vada di pari passo con la semplicità e la povertà di un quartiere. Un corollario di autovendite che non ha quasi pari: marca per marca e con locazioni, anche in questo caso, sterminate. L’EUR giusto lì in un orizzonte di marmo bianco, il cinodromo – ora centro sociale – a due passi e coi ricordi di chi scavalcava per andare a vedere di nascosto i levrieri correre dietro la lepre. In Germania, leggo da wikipedia, c’è addirittura una cittadina, Fulda, in cui per gemellaggio col quartiere è nata una Maglianastrasse. Ma non mi viene da sorridere anzi mi scuote un orgoglio che, non abitandoci, potrei risparmiarmi. Ci finisco su Maglianastrasse – quella vera – in un sabato pomeriggio in cui già si sentono nell’aria le premesse di serate in discoteca, capelli fatti o da fare, comitive, make up pesanti, nail art fantasiosa e a caro prezzo nonostante la crisi, perizomi: il tutto come se, similmente all’ansia culinaria, la seduttività fosse direttamente proporzionale al bisogno di fuga. E finisco in un bar che sembra quasi un piccolo avamposto. Dar Negro: un museo di storia fotografica. Dentro c’è l’epica di un bar che non è un bar ma un quartiere. Che è stato radio, che è punto d’incontro. Qui fuori sì che ci starebbe bene una di quelle orribili scritte “e non solo”. Ma, a riprova di un’onestà di fondo, non è premessa da nessun invito la ridda di cose che ci puoi trovare. Dalla pentola al detersivo, al surgelato, al domopak. Alla parete si allinea una vicenda personale che passa tutti i pantaloni: a tubo, a zampa di elefante, attillatissimi, di pelle nera. E i mocassini e le vacanze e le star di passaggio. Delle volte penso che i bar di quartiere rappresentino una agenzia sociale (come piacerebbe dire ai sociologi più ottimisti), anche di saperi. Tanto quanto un comando di vigili o di polizia, una biblioteca, una scuola. Qui un chinotto è un chinotto, un caffè un caffè e un tramezzino quello che deve essere. E come va va. Anzi: che vada come deve andare. www.paesesera.it/Societa/Restare-o-andare-Suggestioni-dalla-Magliana
Di Carvelli (del 30/01/2012 @ 09:25:48, in diario, linkato 1261 volte)
Scrive Derek Walcott: poetry is still treason/ because it is truth. Che Matteo Campagnoli traduce: la poesia è sempre tradimento/ perché è verità. Oggi penso con insistenza a questi due versi come a un'espressione matematica che devo risolvere entro domani.
Nell'ultimo numero di Buddismo e Società, ho scritto un ricordo di Wangari Maathai, premio Nobel per la Pace 2004. La donna che piantava gli alberi. E, citavo non a caso, Jean Giono da "L'uomo che piantava gli alberi": “Da tre anni piantava alberi in quella solitudine. Ne aveva piantati centomila. Di centomila ne erano spuntati ventimila. Di quei ventimila, contava di perderne ancora la metà, a causa dei roditori o di tutto quello che c’è di imprevedibile nei disegni della Provvidenza. Restavano diecimila querce che sarebbero cresciute in quel posto dove non c’era nulla”.
"Nominarle soltanto è la prosa/ Dei diaristi, è rendervi famose/ Per lettori che come turisti lodano/ I letti e le spiagge come uguali;/ Ma le isole possono esistere solo/Se lì abbiamo amato." Questi i versi di Derek Walcott di "Islands" da "Nelle vene del mare", nuova raccolta antologica che esce col Corriere della Sera. Non li sto comprando tutti questi volumi. Ma mi ha fatto piacere stamattina trovare un insospettabile edicolante della Tuscolana amante dei versi. Ha detto così: ho preso quello di Neruda, sono meravigliose, da leggere davanti a un camino. E ci ha tenuto a dirmi che questi volumetti vanno a ruba. Ed è bello sentire questo amore per la poesia da persone che non crederesti.
La scorsa notte è morto Anghelopoulos per le conseguenze di un investimento avvenuto nel pomeriggio di ieri ad Atene mentre faceva i sopralluoghi di un film sulla crisi greca a cui avrebbe partecipato anche Toni Servillo. Per fatti di tesi mi sono occupato di questo regista greco che ha molto lavorato con Tonino Guerra su cui appunto mi sono laureato. C'è qualcosa di profondamente sospeso nei suoi film e non è un caso che la parola compaia anhe in una sua pellicola. Il tema della lunghezza delle stesse è anche stato da molti rilevato come causa dell'insuccesso di pubblico o del non trionfo presso la critica dei suoi film. Che in definitiva secondo me sono sempre film sul tempo. Tempo storico, tempo biologico, tempo spirituale. Un pensiero filmico invero un po' arduo talvolta, ma affascinante.
Faccio seguito all'appello riverberato in vario modo in questi giorni sulla stampa (dal Domenicale de Il Sole 24 Ore) a favore della concessione della Legge Bacchelli per il poeta friulano Pierluigi Cappello che qui sapete molto amato e citato. Cappello è dall'età di sedici anni su una sedia a rotelle in seguito a un incidente di motorino in cui l'altro passeggero perse la vita. E' autodidatta e di famiglia povera, in difficoltà economica. Le sue poesie hanno meritato premi e riconoscimenti. Io ho scritto oggi e vi invito a fare altrettanto a presidente.consiglio@regione.fvg.it
In questi giorni si parla un bel po' della Thatcher in ragione del film in immimente uscita. La frase ricorrente è "era una donna tosta". Il seguito è "quali altre donne toste esistono oggi in politica?" e chiacchiere. Cose così. Come se essere tosti sia una qualità a prescindere. Come essere belli. Saper parlare. Essere atletici. Margaret Thatcher è stata una donna tosta. E quindi? Boh. Comunque la cosa mi irrita. Il "tostismo" assurge a ideologia più che prassi della sua politica. Del suo essere donna. Ma - sottintendono - non una donna come quelle altre un po' mosce, un po' - come dire - donne. Normali, senza... Ecco è quel "con/senza" che non mi piace. Qui sotto il suo profilo politico da wikipedia. http://it.wikipedia.org/wiki/Margaret_Thatcher
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