Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Poi mia madre mi diceva “adesso andiamo” e andavamo. Mia madre mi diceva “semolino” e semolino era. Diceva “caldo” e caldo era. Poi mia madre mi diceva cose che non capivo e che ora purtroppo non ricordo più e credo siano successe. Di altre non ricordo bene se poi fossero davvero così vere. O meglio, credo che ci siano cose dette che dopo non erano vere ma non ricordo quali. Di certo le paure erano le paure. E credo che molte rimanessero tali, nonostante qualche ferma rassicurazione. Così mi ricordo di altri piaceri che non venivano detti, che venivano omessi, silenziati, glissati o, peggio, banditi. Piaceri rimanevano e magari c’era da capire cosa non collimava. Ricordo che molto che adesso non ricordo per tanto tempo è stato importante. Ricordo di averne sofferto. E adesso non so più dire se è stato necessario averlo dimenticato o se è stato inutile averlo ricordato. Per troppo tempo. E averne sofferto.
“American Hustle” rischia di essere il film della stagione o uno dei. Al di là del riuscito bagno vintage e della corposa e ben selezionata compilation che rendono credibile l’ambientazione e leggero il notevole minutaggio della pellicola è la sceneggiatura senza cadute a fare del film un riuscito kolossal della bugia. Una scrittura con un sistema ad anelli (e gradini) che raccorda con anticipazioni e colpi di scena le fasi della storia. Un finescena proietta nel successivo e uno dentro l’altro come in una matrioska che nasconde inganni nell’inganno. Tanto che, in ultima istanza, il tema finisce per essere “chi ha davvero ingannato chi”. E: quale inganno tiene a sé ogni inganno con una morale finale non poi così retorica. Gli attori sono superlativi. Nelle scene aleggia una sensualità trattenuta e mai banale a dispetto delle tentazioni ben esibite e scollate. Ma non è il sesso (trattenuto e dilatato) il motore dell’azione e neppure lo sono i soldi. Alla fine – e questo è già il primo non scontato elemento unificante – sembra reggersi tutto sul chi fotte chi senza non darlo poi tanto a vedere. Il continuo slittamento bene/male, polizia/crimine non è cosa nuova ma il modo in cui viene declinato finisce per esserlo o sembrarlo. Insomma tanti buoni motivi per fare un po’ di bagno di folla dopo i cinema vuoti dei mesi passati. Ma forse la ritornata attenzione non è merito delle sale rinnovate quanto piuttosto di film di qualità migliore come “I sogni segreti di Walter Mitty” (semplice e un po’ retorico ma ben fatto), “La mafia uccide solo d’estate” (tutto sommato un modesto e riuscito esperimento di autofiction in pellicola), “L’ultima ruota del carro” (della serie: il ritorno del cinema comico d’autore) e “Still life” (lento e telefonato nella scrittura della storia ma credibile in quella del personaggio principale).
Oggi cadono le foglie sul manto d'asfalto ghiacciato. Finiamo un puzzle sul tavolo zoppo. Remiamo scomposti. Sudiamo. Odoriamo di varechina. Facciamo la spalliera svedese. Oggi è il giorno più giusto per dirci quanto sappiamo di avere sempre saputo. Oggi viviamo perduti in un piccolo lago di luce. Oggi moriamo felici. Oggi non accade più niente.
Partendo da un articolo su “Internazionale” di questa settimana di Taiye Selasi mi sono ritrovato a pensare alla mancata, perduta, rimandata sistematizzazione della mia biblioteca. La questione primaria è: i libri sono già stati disposti già su tutta parete fino a quasi quattro metri di altezza. Tornare sul libro sistemato, come sul latte versato, appare un’operazione ora titanica. Più facile è stato mettere insieme la poesia e separarla dalla saggistica o dal libro d’arte ma la narrativa – che è predominante – è irreparabilmente compromessa nel suo ordine. L’unico criterio resistente è quello della misura, della doppia misura (tascabile vs non tascabile). In definitiva, una piccola ossuta consolazione. Partendo dall’articolo della Selasi – in verità una ripresa dell’antico tema goethiano della “Letteratura Mondiale” – ho pensato di poter creare dei sistemi all’interno della prima logistica (piccolo e grande formato) improvvisata all’apertura degli scatoloni. Ad esempio: possono stare insieme Vonnegut, Ballard, Murakami, Bontempelli, Savinio e Landolfi (e, all’interno di questo imponente scrittore frusinate come modulare, per dire, “Cancroregina” e “Tre racconti”?)?
Potremmo incrociare – o giustapporre facendoli convivere – criteri geografici (ad esempio, letteratura Noreuropea e, segnatamente, le edizioni Iperborea con il loro fuori-formato), criteri tematici (l’assurdo o il realismo o) e criteri temporali (il Novecento e i Contemporanei e il resto)? Fermo restando il criterio “piccolo/grande” si può adoperare in maniera mista la sistemazione per collare e case editrici e un criterio più trasversale? La letteratura di viaggio può stare tranquillamente fuori da ogni classificazione o finire ordinata per luoghi (le antologie di Chatwin, nel caso, potrebbero, però, sfuggire). La mistica va messa con i libri sacri (fatto salvo il buddismo che ha spazio a sé)? La letteratura popolare (“Lo cunto de li cunti” e “Le mille e una notte”) sta in un suo luogo segnato a sé anche quando incontra la religione? “Il minotauro” di Tammuz sta nelle spy stories o nei romanzi d’amore? Ecco: esiste una categoria “romanzi d’amore”? O non è, piuttosto, un macrotema che può contenere la saggistica come “L’amore e l’Occidente” o Fromm? Sospendo la piccola classificazione dei libri del cuore: Handke de “Il canto alla durata”, Thoreau, Attar, la trilogia di Bilenchi, Bichsel, Walser, Kureishi, Salamov ed “Essere e destino”, Orazio e Simic. Una piccola biblioteca separata che nella casa precedente tenevo distinta dall’altra.
Mentre scrivo le mie ipotetiche/possibili classificazioni mi chiedo se, effettivamente, il mio gusto di lettura (diverso spesso dal mio gusto di scrittura e, anche se non lo pratico quasi mai, dal mio gusto “editoriale”) sia riconducibile a degli insiemi. Mi domando cosa tenga insieme i fili del gusto e se sia giusto o meno rendere disponibile al ritrovamento solo il praticato lasciando al ripescaggio difficoltoso quel che ad oggi non mi attrae più. Forse basterebbe una catalogazione per distanze. Sapere che – non ordinati – a quattro metri da terra galleggiano libri che non rileggerei – ma che mi perito di conservare per completezza di biblioteca – classificandone la sola presenza ad uso di un futuro ripescaggio.
Ti sembra essenziale arrivare a delle conclusioni. Così praticando una strada piena di svolte e curve tiri dritto. Tagli le curve e le svolte e arrivi all'unico punto che somiglia all'essenziale. Un essenziale che sembra il tuo personale punto di vista sulle cose. Che è fatto di alcuni convincimenti, alcune paure, certe velleità che ti si adattano poco. Dopo tutto questo sei pronto a condividere il tutto. Premetti: è così. Finalmente non dici più "per me".
Di Carvelli (del 11/12/2013 @ 10:29:36, in diario, linkato 1066 volte)
Premetto che il libro di Antonio Pascale “Le attenuanti sentimentali” (Einaudi) mi è piaciuto. Lo scrivo prima perché so che dovrò dire che molto di quello che c’è in questo libro irrita. E deve irritare. Che molto di quello che dovrebbe suscitare adesione parimenti talvolta irrita (e non è importante che questi siano effetti voluti). Che l’autofinzione (genere che avrebbe irritato e irrita nelle premesse colui che racconta) si realizza e anche in una forma compiuta. Il personaggio che dice io e che trova molte ragioni di convergenza biografica con lo scrittore Antonio Pascale. Ma questa è la regola d’ingaggio del genere (ed è una regola che ha molte controregole: la prima è che non è verità il racconto di sé per quanto attendibile). Ci sono molte avventure sessuali nel libro. Poche portate a compimento. Il divano e il letto sono gli oggetti – verrebbe da dire transizionali – di questa incompiutezza o compiutezza incompiuta. A pagina 35 viene dichiarato un tema che diventa sempre più moderno (e il libro di Pascale è nelle premesse e anche nelle soluzioni un libro sulla modernità sentimentalsessuale): “Ci sono alcuni ragazzi che fanno esercizi spirituali con le donne”. Andare a casa loro, surfare sulla possibilità di un amplesso e poi via. A pagina 39 viene sollevata la teoria darwinista della bellezza (questo ragionare sulle spiegazioni del comune, del quotidiano – oddio che brutta parola! – è una delle caratteristiche interessanti del lavoro di Pascale sospeso tra sociologia (anche se a lui forse non piacerebbe che io lo dicessi), psicologia (lo irriterebbe in una qualche forma), scienza (per deformazione professionale) e buona letteratura (con un talento speciale per la forma breve). La scelta continua dell’opinione meno condivisa dai più è, qualche volta, telefonata per noi che ormai leggiamo (e non smetteremo certo di farlo per questo) i suoi articoli sul Corriere della Sera che mettono a nudo alcuni partiti presi ecologici o a(nti)scientifici. A pagina 77 (ma era già accaduto pagine prima) si parla del tradimento e della necessaria distanza spaziale: della serie non “l’occasione fa l’uomo ladro” ma “creando l’occasione propizia si ruba con più leggerezza d’animo”; ovvero: i furti nelle case di città lasciate libere o quello nelle ville della villeggiatura abbandonate per la stagione. A pagina 79 c’è un bel bacio dato a un semaforo e poi nulla più. A pagina 81 si cita Cechov: Un uomo deve divertirsi, far pazzie. Commettere errori e soffrire. Una donna vi perdonerà un’impertinenza o una sfrontatezza, ma non vi perdonerà mai questa vostra ragionevolezza. A pagina 83 si parla degli uomini (del ruolo degli uomini) nelle mutate generazioni. A pagina 89 di nuovo la teoria darwinista della bellezza di Denis Dutton. A pagina 134 (dopo un siparietto trascurabile sull’essere del sud) una bella citazione da Fanny Ardant che chi racconta adatta a sé mutandola ma che era davvero molto bella di suo: “Cosa ti hanno insegnato i tuoi genitori?” chiedono alla bellissima attrice francese. E lei? Lei dice: “A non correre sotto la pioggia perché non è dignitoso”. La mia lettura si chiude qui, prima che piova.
Che cosa ho a che fare io con l'amore? Che cosa ho a che fare io con la lana di vetro? Con le stringhe delle scarpe? Con il lucido, con il grasso di foca? Che cosa ho a che fare io con le lacrime? Le pene, il sole, il sapone liquido? Che cosa ho a che fare io con le bollette, le lettere di dimissioni? Che cosa ho a che fare io con tutti quelli che mi odiano? Che mi amano? Che mi amerebbero se solo fossi diverso? Se fossi come dicono loro? Che cosa ho a che fare io con il vinile? Che cosa ho a che fare io con la carta oleata? Con una lettera mai spedita? O con una mai arrivata? Che cosa ho a che fare io con l'esame delle urine? Con i cocci di vetro su un muro? Con le gomme da cancellare? Con quelle da masticare? Che cosa ho a che fare io con te? Che cosa ho a che fare io con l'amore?
Di Carvelli (del 04/12/2013 @ 14:46:55, in diario, linkato 1135 volte)
"Ma è meglio così, pensa Zena - se l'amore con Marco Bologna non fosse platonico, sarebbe finito da un pezzo". Così nel primo racconto di "Urbino, Nebraska" di Alessio Torino. E dopo: "Se una volta ci incontriamo al campo possiamo fare qualche giro insieme. Al di là di questo non potrà esserci niente. Non mi prenderei mai bene per uno che si ferma a dare passaggi così" dice sempre Zena a un rimorchiatore da strapazzo. Leggendo questi dialoghi dal primo racconto della raccolta mi è ritornata in mente una cosa che mi disse decenni fa un'amica: l'amicizia a mio modo di vedere è più dell'amore; l'amore finisce l'amicizia no. Aveva ragione, nella quantità almeno. Ma tutto può finire e tutto può durare. A volte anche a costo della sua stessa naturale durata. Scadenza. A volte l'amore sarebbe meglio che non iniziasse proprio. A volte anche l'amicizia. A volte avrebbero dovuto iniziare l'una o l'altra. E invece: nulla. Altre volte bisognerebbe essere chiari come lo è Zena. Ma si impara col tempo. Si scopre con gli errori. Ed errori arriva un momento che non si ha più voglia di farli. Aggiungo un "purtroppo"? Aggiungo un "purtroppo". Eppure c'è chi come Zena ha questa lucidità da presto. Ed è una bella dotazione. Non so se talvolta pentita ma lo è. Ecco, voglio spendere una lancia a favore della chiarezza. La lancia che spezzo - in nome della sua etimologia (nei tornei cavallereschi spezzare una lancia equivaleva a dichiararsi pronti a battersi e quindi a incrociare le lance fino a vederle infrangere) - è per fronteggiare un avversario almeno pericoloso. Il suo nome è: bisogno di riconoscimento, necessità di ritorni di qualsiasi tipo. Ecco: se riconoscete questo vostro insidioso avversario interno, rompetegli addosso la lancia. Vi sembrerà di aver perso qualcosa ma non è così. Per la lancia che spezzate avrete in cambio quello che davvero vi serve: il coraggio di essere voi per voi (e per gli altri) un degno alleato. Uno che c'è e che non finge di essere (alleato).
Ho completato la lettura di due libri, entrambi editi da Feltrinelli. Andrea Bajani (Mi riconosci) e Maylis de Kerangal (Nascita di un ponte). Il primo (che bella e azzeccata la copertina di Daniele Benati) è un commosso ricordo di Antonio Tabucchi. Scritto con una sensibilità che non cede mai al dolore facile, il libro vibra di una poesia commossa e molto corporea. Con talento rarefatto Bajani racconta un'amicizia che cammina sulla linea della fine, del dolore e della malattia. Forse il tema che più pressa sulla coscienza è quello dell'incontro tra le età dell'uomo, il bisogno dei buoni maestri, lo scambio tra questi due orizzonti della vita: chi dovrebbe imparare da chi. Senza didascalia e facili vettori. "Nascita di un ponte" è la bella storia senza dialoghi della edificazione di un bridge americano. Con tutto quello che gli gira intorno. Le masse che si muovono con forza da quarto stato verso l'edilizia maestosa. Una bella idea di epica del fare. In una veste così immaginifica (e immaginata) da risultare veementemente metaforica e generativa.
Ho due modi di dire le cose. Una volta parlo senza le parole. Una volta parlo con le parole. Non per forza in questo ordine. Ma poi c'è un tre che cambia tutta questa perfetta organizzazione tabellare. Ho due modi di dire le cose o forse tre. Ecco, se ci penso - se penso a tutto questo discorso mai iniziato e mai finito - se penso ai numeri - e a quanta poca dimestichezza ne ho - se penso... Se parlo. O se non parlo. Se dico i modi che ho di dire le cose neppure io lo capisco fino in fondo. E chiedo qua dentro, dentro un'eco, chi parla a chi. Chi tace a chi.
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