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 il letto open di Sogno... di Carvelli
 
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E poi, Machado, le tue poesie!/ E' un po' come quando un uomo di mezz'età/ s'innamora un'altra volta. Una cosa bella da vedere/ anche se un po' imbarazzante./ Ho fatto qualche sciocchezza, tipo metter su il tuo ritratto./ E andavo a letto con il tuo libro/ per averlo a portata di mano. Una notte un treno/ è passato nei miei sogni e mi ha svegliato./ E la prima cosa che mi è venuta in mente, con il cuore a cento,/ nella stanza buia è stata:/ va tutto bene, tanto c'è Machado./ E poi sono riuscito ad addormentarmi.

Raymond Carver
"
 
Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 05/12/2011 @ 10:17:52, in diario, linkato 657 volte)
Non ve la voglio stare a menare tanto con l'effettoserra, con le nonpiùmezzestagioni, con la glaciazione, con la tropicalizzazione. Ma stanotte ho dormito a intervalli dettati da punture di zanzare e stamane mi rode un po'. Vorrei pure mettere la testa sulla ManovraMonti. MareMonti?Solo Monti pare. Vorrei capire se vengono davvero solo colpiti i ceti medi. Stupirmi della sorpresa (o forse no). Forse solo mia. Vorrei davvero poter credere che questo Paese non è legato mani e piedi a una casta inattaccabile che decide, chiede di decidere, dimostra di condividere e poi recede e torna sulla difesa della sua stessa inattaccabilità complice il nostro silenzio, il nostro credere alle favole (nere o rosse, di piazza o di palazzo). Stupirmi che questa casta ha trovato i suoi più aspri guerrieri nel giornale più destromoderato di una volta (con i suoi AlesinaGiavazzi, RizzoStella, Gabanelli). Stupirmi e poi di nuovo irritarmi. Senza l'illusione che una volta schiacciata, la zanzara, tutto tornerà come prima. Meglio di prima.
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Di Carvelli (del 05/12/2011 @ 10:15:58, in diario, linkato 844 volte)

Che ci faccio qui?
Piazza Regina Margherita e la globalizzazione
di Roberto Carvelli

Che ci faccio o, meglio, che ci facevo? Piazza Regina Margherita numero 27, un portone che ho varcato centinaia di volte e che forse non varcherò più. Erano qui gli uffici di un mio editore che la scorsa settimana ha annunciato la chiusura dopo trent’anni di onorato servizio. Francesco Coniglio, nell’area romana dell’underground – specie fumettistico e specie fumettistico d’autore – è un nome che evoca qualità e rispetto generale. Coniglio editore (prima Mare Nero) per molti ha voluto dire eros (dalla storica rivista Blue a saggi di genere e d’avanguardia) e culture alternative quando questa parola aveva un senso non sospetto e a sé, non in relazione a qualcos’altro. Quando questi settori erano un campo di battaglia di pochi contro le collane di editori più grandi e non a rischio fallimento. Coraggio contro presidio di un genere tra i tanti da aggiungere a un catalogo generalista. L’ho scoperto – che avrebbe chiuso – il giorno in cui lo annunciava in un’intervista a Gianpiero Mughini ma dalla sua viva voce. Domenica scorsa, incrociandolo per caso sotto il portone dei suoi uffici mentre sfogliava i giornali che riverberavano la notizia a dire che stavolta non si trattava di un’amara considerazione sulla resistenza dei piccoli editori (alle porte del classico appuntamento della Fiera romana dedicata). La crisi del mondo dell’editoria, un mercato sempre più self publishing e on line, sempre più catene e massimizzazione che sconfigge i Davide dello scouting contro il Golia della globalizzazione. La stessa elefantiaca pressa che sta minacciando di chiusura la storica Libreria Croce come nel romanzo di Hrabal, Una solitudine troppo rumorosa. Piazza della Regina, il bar dei gemelli, la vineria più in là uno storico bowling da appuntamenti comitivari adolescenziali, il ristornate dei Butteri. Ci rifarò qualcosa da queste parti, comunque. Una piazza che ha cambiato così tante volte profilo da aver bisogno di cartoline e immagini a mente di chi ci ha vissuto. Mio padre la ricorda con la statua centrale e tutto che gli gira attorno. Io con i sampietrini e senza le larghe pedane con panchine che hanno voluto restituirle l’idea umana di uno scambio di parole invece che due strombazzate di clacson nel caos che anticipa il viavai universitario e medico. Chi ci passa forse ha un appuntamento all’Eastmann, una lezione di economia politica a La Sapienza, un fiore da mettere su una tomba in fondo, al Verano. Sta seduto su un tram o cammina sotto i platani magari per scegliere un regalino di Natale come in questo periodo di pochi soldi e molta fantasia per fare bella figura nel rispetto di una delle crisi peggiori che si ricordino da sempre. Crisi globale e crisi della globalizzazione: è bene ricordarselo ogni tanto. Piazza della Regina è una specie di sfiato che prelude o anticipa tutto. Un avamposto, un punto di riferimento per sapere che sei sulla strada giusta per andare da qualche altra parte. La necessità della domenica per scoprire di essere valida a sé e non come un addentellato del mondo degli uffici che hanno soppiantato l’umanità residenziale. Camminarci, allora, diventa un atto di resistenza come quello di un singolo contro l’Organizzazione. Un atto sempre più raro, destinato ai vecchi e ai fortunati che hanno potuto tirar fuori soldi per viverci o continuare a farlo e non contarli agli altri per lavorarci. In ragione di questo ha visto sparire i negozi per fare la spesa in favore dei locali per passare una serata a tavola (anche qui la globalizzazione c’entrerà qualcosa, no?). La domenica di piazza della Regina ha l’andamento slow e un po’ zombie di chi esce da casa a testimoniare che qualcuno ancora ci vive in mezzo a questi palazzi di muri spessi e riscaldamento condominiale. Disposti per scala e per lettera. Due passi in mezzo a questo rombo laico (come mai a nessuno è venuto in mente di costruirci una chiesa?) e ci si sente in un concetto senza poteri stabiliti, quello del transito, dell’andare in cui fermarsi è davvero un atto resistenziale.
http://www.paesesera.it/Societa/Piazza-Regina-Margherita-e-la-globalizzazione

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Di Carvelli (del 03/12/2011 @ 16:22:58, in diario, linkato 590 volte)

Così scriveva ai figli Che Guevara prima di partire per la misione in Congo.

Cari Hildita, Aleidita, Camilo, Celia ed Ernesto,

se un giorno dovrete leggere questa lettera, sarà perché io non sono tra voi. Quasi non vi ricorderete di me e i più piccoli non ricorderanno nulla. Vostro padre è stato uno di quegli uomini che agiscono come pensano e, di sicuro, è stato coerente con le sue convinzioni. Crescete come buoni rivoluzionari. Studiate molto per poter dominare la tecnica che permette di dominare la natura. Ricordatevi che l'importante è la rivoluzione e che ognuno di noi, solo, non vale nulla. Soprattutto, siate sempre capaci di sentire nel più profondo qualsiasi ingiustizia commessa in qualunque parte del mondo. È la qualità più bella di un rivoluzionario. Addio, figlioli, spero di vedervi ancora. Un bacione e un grande abbraccio da Papà.

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Di Carvelli (del 02/12/2011 @ 14:11:06, in diario, linkato 1018 volte)

Da un articolo comparso ieri sul Corriere della Sera. Scritto da Roberto Calasso dell'Adelphi. Ecco, il suo pensiero sull'editoria e l'autoeditoria: "Infine, appare ogni giorno più evidente che, per la tecnologia informatica, l'editore è un intralcio, un intermediario di cui volentieri si farebbe a meno. Ma il sospetto più grave è che, in questo momento, gli editori stiano collaborando con la tecnologia nel rendere superflui se stessi. Se l'editore rinuncia alla sua funzione di primo lettore e primo interprete dell'opera, non si vede perché l'opera dovrebbe accettare di entrare nel quadro di una casa editrice. Molto più conveniente affidarsi a un agente e a un distributore. Sarebbe l'agente, allora, a esercitare il primo giudizio sull'opera, che consiste nell'accettarla o meno. E ovviamente il giudizio dell'agente può essere anche più acuto di quello che, un tempo, era stato il giudizio dell'editore. Ma l'agente non dispone di una forma, né la crea. Un agente ha soltanto una lista di clienti. O altrimenti si può anche ipotizzare una soluzione ancora più semplice e radicale, dove sopravvivono solamente l'autore e il (gigantesco) libraio, il quale avrà riunito in sé le funzioni di editore, agente, distributore e - forse anche - di committente. Viene naturale domandarsi se questo significherebbe un trionfo della democratizzazione o invece dell'ottundimento generale. Per parte mia, propendo per la seconda ipotesi. Quando Kurt Wolff, esattamente cento anni fa, pubblicava nella sua collana «Der Jüngste Tag», «Il giorno del giudizio», prosatori e poeti esordienti i cui nomi erano Franz Kafka, Robert Walser, Georg Trakl o Gottfried Benn, quegli scrittori trovavano immediatamente i loro primi e rari lettori perché qualcosa attirava i lettori già nell'aspetto di quei libri, che si presentavano come snelli quaderni neri con etichette e non erano accompagnati né da dichiarazioni programmatiche né da lanci pubblicitari. Ma sottintendevano qualcosa che si poteva già percepire nel nome della collana: sottintendevano un giudizio , che è la vera prova del fuoco per l'editore".

Il resto qui: http://www.corriere.it/cultura/libri/11_dicembre_01/calasso-segreto-editoria-arte-di-dire-no_07fc3906-1c13-11e1-8ed7-30f7808a816f.shtml

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Di Carvelli (del 01/12/2011 @ 14:50:48, in diario, linkato 1198 volte)

Certi giorni  di Billy Collins

Certi giorni
metto la gente
al loro posto a tavola,
piego loro le gambe alle ginocchia,
se le ginocchia sono snodate,
li sistemo nelle loro sedie di legno piccoline.

Tutto il pomeriggio si guardano fisso
l’uomo col vestito marrone,
la donna col vestito blu,
perfettamente immobili,
perfettamente composti.

Ma in altri giorni sono io quello
che viene preso per le costole
e sistemato nel soggiorno di una casa delle bambole
a sedere insieme agli altri al tavolo da pranzo.

Molto divertente,
ma a te piacerebbe
non sapere se il giorno dopo
lo passerai camminando a grandi passi, come un dio vigoroso
con le spalle tra le nuvole,
o seduto laggiù tra la carta da parati
a fissare dritto avanti a te
con la tua piccola faccia di plastica?

(traduzione di r.morresi) da http://lapoesiaelospirito.wordpress.com/2008/10/20/certi-giorni-billy-collins/

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Di Carvelli (del 30/11/2011 @ 18:49:30, in diario, linkato 840 volte)
La mia amica S. ieri era in un negozio dalle parti di casa nostra, via dei Consoli. Dava le spalle alle vetrine e alla strada. Guardava negli occhi il commesso. Poi uno schianto. Poi negli occhi del lavorante una espressione di terrore che non aveva mai visto ma che in un attimo ha letto e capito. Ieri qualcuno si è suicidato nel mio quartiere. Sui giornali nulla. Oggi ne parliamo e ci diciamo che è più interessante sapere che un camion ha schiacciato due a un supermercato. Qualcosa che non atterrisce e che butta fuori. Qualcosa che si può esorcizzare, scagliare fuori o contro qualcosa. Cosa? I freni? Gli autisti? Le discese? Cosa invece per esorcizzare un gesto di coraggio o debolezza? Un gesto che significa “non sto bene”. Nello stesso giorno si è suicidato Lucio Magri nel modo che sapete. Forse giustamente, oppure no, si è saputo. E’ giusto rimuovere? E’ giusto avere paura della emulazione? Cose che mi chiedo e che vi chiedo.
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Di Carvelli (del 30/11/2011 @ 10:02:36, in diario, linkato 856 volte)
Il racconto che leggo stamattina all'alba - prima dell'alba - è di Flannery O'Connor. E s'intitola Tardivo incontro col nemico. Nel racconto c'è un centoquattrenne che già vien dura a mettere insieme solo quei tre numeri in fila. Un vecchio portato come trofeo nelle manifestazioni. Un vecchio che ha davanti più futuro che passato contrariamente a quello che si possa pensare. E a come andrà a finire. Finire e iniziare. Ecco i primi due verbi antitetici della giornata e del racconto. 
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Di Carvelli (del 29/11/2011 @ 09:06:52, in diario, linkato 807 volte)

Ho visto e mi è piaciuto La kryptonite nella borsa di Ivan Cotroneo che è autore anche del soggetto-libro da cui è tratta la storia. Conosco Cotroneo solo come traduttore (bravo) dell'opera di Kureishi (la gran parte). Non come autore, purtroppo. Né letterario né televisivo. Il film è ben fatto. C'è anche una sua cauta ma risoluta morale. Una direzione efficace degli attori, un ottimo disegno di scrittura. mai banale pur se pop. Qualche dubbio sull'abuso numeroso di attori di prima grandezza (non è il caso di una convincente Golino ma certo una riflessione la merita l'impiego di Zingaretti e la generale "troppa grazia" spropositata alla partita). Un po' come una tempesta in un bicchiere. Efficace l'uso di attori meno noti - la seconda linea diciamo così - e qualche giusto rispescaggio. Il film lo consiglio a quanti - non a torto - lamentano una stagione cinematografica debole.

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Di Carvelli (del 28/11/2011 @ 09:19:41, in diario, linkato 2703 volte)

Cito una poesia dal libro che sto leggendo. Balistica di Billy Collins (Fazi). Presto citerò altri versi. Questi provengono dalla postfazione del traduttore, Franco Nasi. Sono versi, ci racconta lo studioso che nella prefazione intervista lungamente il poeta americano, letti da un amico al funerale della madre.


Lo scoubidou
L’altro giorno mentre rimbalzavo lentamente
tra le pareti azzurre di questa stanza,
saltando dalla macchina da scrivere al piano,
dalla libreria a una busta caduta sul pavimento,
mi sono trovato nella sezione S del dizionario
dove i miei occhi sono caduti sulla parola Scoubidou.
 
Nessun biscotto sgranocchiato da un romanziere francese
avrebbe spedito qualcuno più in fretta nel passato –
un passato dove io stavo seduto a un tavolo in un campeggio
accanto a un profondo lago dell’Adirondack
imparando a intrecciare strisce sottili di plastica
in uno scoubidou, un regalo per mia madre.
 
Non avevo mai visto nessuno usare uno scoubidou
né indossarne uno, se è a questo che servono,
ma questo non mi trattenne dall’incrociare
filo con filo, e poi di nuovo,
fino a farne uno scoubidou
quadrato, bianco e rosso, per mia madre.
 
Lei mi diede la vita e il latte dal seno,
io le diedi uno scoubidou.
Si prendeva cura di me, quand’ero a letto ammalato:
mi avvicinava alle labbra cucchiai di medicine,
mi appoggiava alla fronte freddi panni bagnati,
poi mi portava fuori alla luce ariosa;
 
e mi insegnò a camminare e nuotare,
io in cambio le regalai uno scoubidou.
Ecco qui migliaia di pasti, disse,
ed ecco i vestiti e una buona scuola.
Ed ecco il tuo scoubidou, le risposi,
che ho fatto con l’aiuto dell’istruttore.
 
Ecco un corpo che respira e un cuore che batte,
gambe, ossa, denti forti,
e due occhi chiari per leggere il mondo, sussurrò.
Ed ecco, dissi, lo scoubidou, che ho fatto in campeggio.
Ed ecco, vorrei dirle ora,
un dono più piccolo – non l’antica verità
 
che non si può mai ripagare una madre,
ma la triste confessione che quando lei prese
lo scoubidou a due colori dalle mie mani,
ero certo come certo può essere un bambino
che quell’oggetto inutile e senza valore, che avevo intrecciato
per pura noia, bastava per pareggiare i conti.

(traduzione di Franco Nasi)

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Di Carvelli (del 28/11/2011 @ 09:15:52, in diario, linkato 826 volte)

Un altro viaggetto romano

Che ci faccio qui?

Tempi Moderno

 

 

di Roberto Carvelli

“Ultimi rifugi di quell’umanità dolente che insegue nei dintorni della stazione, come in una ‘riserva protetta’, la soddisfazione delle proprie inclinazioni naturali. La notifica da parte dei vigili urbani ai proprietari delle sale del triangolo delle ‘luci rosse’ è questione di ore”. Miracoli della rete, così il Corriere della Sera raccontava – era l’11 maggio 1994 – la chiusura di Moderno e Modernetta, le due sale sotto i portici di piazza Esedra. Per essere precisi l’emiciclo di sinistra, guardando via Nazionale. L’articolo proseguiva con la sentenza: “Si chiede la cessazione immediata delle attività perché esiste un pericolo per la salute pubblica e c’è il rischio di trasmissione di malattie infettive”.

Che ci fosse rischio d’infezioni non sappiamo – era l’era del serpeggiante terrore da untori dell’Aids – ma di certo passeggiare in quell’emiciclo dei portici era a forte rischio reputazionale.

Oggi non si può dire che non si colgano attorno talvolta i germi di una Roma che vive o sopravvive di espedienti sessuali ma il movimento è tanto e non solo più circospetto. Sono al nuovo cinema Moderno (uno della catena The Space) per vedere il film cult del momento quello dei popopopopo de mmmmer(omissis), dei fancu(omissis) Gianluca, dei daje caz(omissis). Il cinema ora è bello, qualche antica traccia del decoro dell’ingresso (è stata una sala di prima visione prima di tingersi di rosso) nel soffitto di stucchi. Il Moderno oggi è super-avanguardia con schermo, proiezioni e sonoro da urlo (nel senso letterale dei decibel). Un po’ americanata da popcorn in versione supersize ma è comodo – cioè non devi lasciare le rotule all’ingresso prima di sederti – e ha il suo bon ton: proiezioni per mamme, matinée per bimbi, sconti per gli under 25 e tablet con sottotitoli per non udenti. Pare passato un secolo da quando dovevi passare davanti di fretta...metti che incontravi qualcuno...eri andato a vedere “Le p0rn0 notti di...”, Moana o Cicciolina? Nooo passavo di qui per caso. Una bacchetta magica dal racconto dell’ispezione: “poltrone rotte, macchie dappertutto, anche di liquidi presumibilmente organici. Servizi igienici fatiscenti, sporchi, aloni di umidità sulle pareti e sul soffitto, distacchi di maioliche”. Non per caso ma per scelta e nel nuovo decoro eccomi a vedere I soliti idioti, successo del duo Biggio-Mandelli  passato dal culto di youtube (che ha amplificato il coraggio di MTV che ha pagato e messo in onda la sit-com situazionista) alla sala. Il film, come vi direbbero i fan, è un po’ una rimasticatura della grande creatività dei brevi esilaranti sketch televisivi ma la gente ride. Al mio fianco un gruppetto di cinesi addirittura si scompiscia senza pause. La Roma del film è un po’ da cartolina (Colosseo, via dei Fori), un po’ pretesto e simbolo del road-movie Milano-Roma che sintetizza la distanza tra Gianluca sellerone di nascita e vita milanesi, amante dei bruchi e del parlare al contrario e il papà rotto a tutte le esperienze della vita e tenuto dalla nostalgia capitolina oltre che dai superalcolici. Due dei personaggi-coppie interpretati dai due ex veejay: bravissimi anche nella coppia di omosessuali e nel bambino politicamente scorretto (escluso dalla sceneggiatura ma ampiamente campionato in Rete). 

Vi sollevo dal riassunto del film come dallo scontro Aldo Grasso/Conchita Di Gregorio La giornalista, in estrema sintesi, inorridisce dinanzi alla diseducatività della pellicola (“uno specchio che rimanda il vuoto”) e al suo successo al botteghino. Per fortuna ancora nessuno si è gaberianamente chiesto se I Soliti Idioti sono di destra o di sinistra...ma succederà o sta succedendo non temete! Vi invito a farvi contagiare anche se con riserbo dagli USA in piazza Esedra e da due risate un po’ ciniche (sapranno tutti gli spettatori prendere le distanze da tanta commedia dell’assurdo?). Cominciando dall’inno vendittiano-guzzantiano che sintetizza il trash di cui si nutre la comicità dei Biggio-Mandelli di sicuro più adatto alla forma breve che alla misura-film.

www.youtube.com/watch?NR=1&v=qnZopZX7NhE

www.paesesera.it/Societa/Tempi-Moderno-Dalle-luci.../126

 

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