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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 24/10/2006
il manifesto 22 ottobre 2006 CULTURA pagina 12
La vita sfuggente di una generazione precaria
La catena di montaggio dei call-center, gli «operai-tamagotchi», la retorica sui lavoratori della conoscenza. Un incontro a Roma di giovani narratori che hanno provato a raccontare il lavoro flessibile e intermittente. E alla fine la proposta di un «laboratorio di scrittura»
Giuseppe Allegri
Génération 69 , così titola un pamphlet francese del 2005 (Editions Michalon) sui 30/40enni, vittime di «una sorta di sindrome di Peter Pan». E il '69 è l' anno dei movimenti che, dopo il maggio '68, già si incamminano verso l'autunno operaio. Ma anche l' année erotique del giovane, impacciato Gainsbourg dell'era pre-Jean Birkin, mentre sbiadite e surreali immagini rimandano le fasi dell' allunnaggio . C'era già tutto in quell'anno: un misto di disincantata, divertita e naif «società dello spettacolo», l'ultimo (ma davvero?) «conflitto di classe» del '900, insieme agli scenari fantascientifici evocati dal cospirazionismo à la Philip K. Dick o da Martin Landau, uno dei protagonisti del serial tv Spazio 1999 , o dalla saga di Star Trek . Ecco gli albori che già segnano i futuri sentieri interrotti della «generazione del labirinto» (François Sand, I trentenni , Feltrinelli, 2006, euro 7,50), ovvero la generazione precaria , dei «mille euro», low cost , liquida, ormai quasi gassosa per la sua evanescenza. Dall'estate appena trascorsa in poi un susseguirsi di pubblicazioni e inchieste, articoli di costume e gossip, noiose analisi militanti e divertenti chiacchiere da doposcuola hanno azzannato quei 25-40enni, nati dopo il '68 e prima del mundial di Spagna. Ma «generazione» è qui usata nell'accezione elaborata da Enrico Palandri nel suo struggente Pier. Tondelli e la generazione (Laterza, 2005): «il conflitto è ciò che separa, espelle. Il termine generazione lo utilizziamo per riferirci a questi cicli collettivi di rivolta e autoidentificazione nella storia». E se di conflitto e rivolta questa generazione sembra averne vissuti pochi rispetto a «quelli del '77» o a «quelli del '68», tuttavia molte donne e unomi di questa generazione hanno attraversato il post-punk elettronico e dark, l'85 delle Mafalde, l'89 del «tutte/i a Berlino», la Pantera e i centri sociali, la prima guerra nel Golfo, i primi attacchi psichici di Luther Blissett, i rave e le performance queer, ma anche le dance hall ragamuffin di Fuecu! , avendo un'ideale colonna sonora nel rapadopa di Stop al panico o nel rap infuocato dell' OndaRossaPosse . Per arrivare a Seattle, Praga, conoscere la mattanza di Napoli e la «Genova luglio 2001». Ed ora questi 25/40enni vogliono guardarsi negli occhi per parlare di questa generazione «usata e gettata», asservita all'insicurezza lavorativa, quando invece vorrebbe gioire di una intermittenza del lavoro e di una continuità di reddito. Per questo non si accontenta di ricette lavoriste e vorrebbe investire le istituzioni di altre proposte: la definizione di un nuovo welfare , fatto di reddito, servizi e garanzie sganciate dalla prestazione lavorativa, per recuperare i 30 anni che ci separano dai modelli sociali di gran parte d'Europa. E al contempo questa gallassia di precari prova a sovvertire la propria condizione di incertezza, superando l'isolamento in cui vorrebbero schiacciarla, per creare transitorie, scriverebbe un filosofo amante dei paradossi, «comunità di chi non ha comunità», basate sulla condivisione dei saperi, la libera e autonoma formazione e fruizione di cultura, innovazione tecnologica, agitazione politica. Parafrasando lo scrittore americano Donald Barthelme questi precari «continuano a muoversi, a giocare di rimessa», perché i «frammenti sono le uniche forme in cui hanno fiducia» e finiscono per ritrovarsi più nelle frammentarie narrazioni dei giovani «narratori precari(e)», che nel vuoto chiacchiericcio della poitica istituzionale o sindacale. E' questo il background che ha alimentato Incontrotempo 3 - festa delle precarie e dei precari , che si è svolto al laboratorio occupato e autogestito Acrobax. E all'interno di questo «happenig» era previsto un incontro con giovani narratrici e narratori (tra presenti e non: Aldo Nove, Mario Desiati, Alessandro Leogrande, Giorgio Falco, Francesco Dezio, Andrea Bajani, Federico Platania, Christian Raimo, Roberto Carvelli, Valerio Mattioli, Michela Murgia, Nicola Lagioia, Francesco Pacifico), invitati ad un'affollata discussione su Letteratura a progetto - Come si scrive precarietà? . Sono scrittori e scrittrici che hanno narrato storie di ordinaria precarietà e la discussione ha cercato di sbrogliare la matassa del perché e come parlare di un condizione lavorativa ed esistenziale tanto evidente quanto sfuggente. Incontro euforico che sigillato alla fine un primo impegno di lavoro in comune: creare un «laboratorio di scrittura» propedeutico però alla costruzione di un condiviso protagonismo sociale dei precari. Punto di partenza di questa composita generazione è il rifiuto dei call center - le nuove catene di montaggio delle industrie della telecomunicazione descritte con sarcasmo da Michela Murgia e Giorgio Falco -, dei contratti a termine nelle fabbriche post-fordiste dell'« operaio tamagotchi» (Francesco Dezio) e il disincanto verso la retorica della società della conoscenza che emerge dai blog dei «lavoratori immateriali». E questo, è stato più volte sottolineato durante l'incontro, accade proprio quando le politiche finanziarie creano il cuneo fiscale per i boiardi delle stesse imprese e società di telecomunicazione che creano le gabbie dei call-center . Per evitare di essere fagocitati da misere scelte individuali, l'invito a stabilire un'alleanza intergenerazionale con «sorelle e fratelli maggiori» non riconciliati e continuare a tessere una rete sociale che blocchi il ritmo infernale della «ciclotimìa» (il passaggio dal lavoro al non lavoro, da un contratto all'altro). Certo anche così facendo i precari rimangono ai margini, ma creano però un'eccedenza di relazioni sociali indispensabile alla costruzione di vie di fuga dall'«esistenza precaria». Provano cioè ad essere sabbia e non la «vaselina dei quartari», come direbbe Luciano Bianciardi. Con creativa lentezza provano quindi a mettere in comune le loro autonarrazioni , per fare il salto successivo: evocare una «cospirazione precaria» pregna di intelligenza tattica e strategica. Anche per questo vale la pena concludere evocando il brindisi della «Bologna partygiana» di inizi anni '80, narratoci a suo tempo da Pier Vittorio Tondelli: «saluto al talento della mia generazione»! Con in più l'auspicio dinamitardo protagonista del Thomas Pynchon di V : teniamoci «al corrente degli ultimi avvenimenti, sempre in cerca di qualsiasi notizia che ci faccia presagire, seppur minimamente, il caos».
Vs Roma
Forse non solo per me, per molti di noi – romani – questo percorso di Campagna Romana è stato un viceversa, una freccia inversa, il giro contrario. Cercavamo cartelli che miravano a Roma e osservavamo il frattempo: quello che ancora non era Roma ma lo sarebbe stato. Lo sarebbe diventato: e ci chiedevamo come si sarebbe compiuta la transustanziazione. Come non-Roma diventi Roma. Quello che incontravamo era un frattempo spaziale e temporale. Due coordinate che sorprendevano per la vaghezza dei riferimenti e perché aprivano camere di decompressione diverse. Quel frattempo che ora è già un frattempo diverso: stagionale, in trasformazione antropica, in decomposizione naturale, in invecchiamento.Un frattempo in riferimento ad altri occhi che lo guardano mentre anche altri sarebbero quelli nostri che dovessero rincontrarlo. Una corriera blu con un nome che diventa un autobus arancione con un numero, da un toponimo fuori dal finestrino di un treno a una delle infinite stazioni ferroviarie che declinano Roma: ogni cosa ha un suo passaggio. Un rospo secco diventa un catalogo di mondoconvenienza (alla faccia delle fiabe). Un materasso usato al bordo di una strada diventa un materasso nuovo dietro ad una vetrina. Ma ogni felice trasformazione ha un suo prezzo. Non sono miracoli esentasse.
Ci siamo chiesti da dove iniziasse la città e il territorio che attraversavamo, quello della Cassia, ci ha costretto a dei giochi di equilibrio. Il Parco di Veio e le sue ville a ridosso dei boschi erano Roma? Ma soprattutto: in che grado la contenevano? Bastava che quel ridosso – che era in definitiva campagna – contenesse esperienze di romanità (tutti lavoravano in città, persino il santone del tempio aveva una seconda casa in città) per essere in qualche modo Roma o mancava il fatidico cartello di benvenuto? Eccoci allora a sbucare dal campestre all’abitativo. A premessa la villa di un ricco argentino con ritmi da imprenditore: niente file, niente orari definiti, agende appuntamenti variabili. Alla distanza di un pensiero da tutta questa fortuna una discarica a strapiombo. Poi il centro sportivo della Lazio, il suo servizio d’ordine a prova di Irriducibili (si chiamano così, quasi matematicamente, i sostenitori più focosi della squadra biancoceleste). Con fuori frasi a uniposca dall’affettuoso, al sensuale, al politico: un sostegno totale nella gradazione del sesso e nella univocità della prassi fascista, violenta, vendicativa e assolutista.
Il dover seguire le indicazioni verso un verso che sapevamo ci ha ricordato il nostro essere insieme indigeni e colonizzatori. Ci ha posto nella duplice condizione di chi ripensa un territorio alla luce di due funzioni quasi contrarie. A ben vedere per molti di noi (romani) si è trattato di un’uscita più che di un’entrata. O meglio un percorso che aveva le caratteristiche di entrambe. Uscivamo dal nostro essere autoctoni, ci mettevamo in un transito. Abbiamo fatto quello che altri fanno naturalmente e per bisogno: un avvicinamento. Ma era improprio e doveva per definizione essere guardingo nell’etimo dell’osservazione e della circospezione. Era una visione studiata. Il segno della lentezza è stata una marca paradossale. Andavamo per tappe ma a passo sostenuto e faticavamo per tenere testa ai ritmi che aveva dettato per noi l’andare a piedi. Persino la scrittura – per fretta – non era prevista se non per appunti. Per punti. Quindi la nostra attività è stata anch’essa una premessa. Il prima delle parole. Note su un taccuino che per il sudore e l’andatura ha perso carta nella tasca posteriore dei miei pantaloni. L’andare si è mangiato la carta e ora che riguardo questo insieme di fogli spillati vedo che in alcune pagine del mio taccuino c’è un buco. La fatica si è mangiata alcuni di quei punti, i ricordi. E questo mi suggerisce un pensiero proprio sul ritmo dell’andatura. Spesso mi sono chiesto che cosa sia l’andatura in scrittura e perché ci siano scrittori che vanno veloci e scrittori che vanno lenti. Scrittori che mirano all’essenziale, al racconto delle conclusioni e scrittori che raccontano una premessa continua. Scrittori di prolusioni e scrittori di eventi. Segnatamente mi sono richiesto se la scrittura debba attendere ad un fine e quindi ad una fine o se possa farne a meno. Come evidente il nostro campo di osservazioni come presenta possibilità presenta anche incognite e si nega alle definizioni.
Seconda considerazione sulla scrittura. Il nostro è stato un lavoro di mediazione, di risonanza. Notavamo quello che qualcuno che era così tanto con noi da essere un po’ noi – anche una parte terminale ma fondamentale del nostro sistema percettivo – notava e rimarcava. Forse ho scritto quello che altri hanno notato. O meglio forse il mio taccuino contiene sensazioni non mie. Mie lo sono per transizione. L’esperienza percettiva è stata comune e scrivere in certi casi ha avuto il segno di questo comunismo dell’esperienza. Chi tra noi amava l’allegoria e il simbolo, chi il resoconto architettonico, chi l’elemento umano come portatore di esperienza del territorio. Eravamo e siamo diversi. Eravamo e diventavamo altro nel nostro essere parte di un sistema percettivo in moto. Tutte le parole che potrebbero seguire a questo nostro piccolo viaggio sono in una certa misura l’equilibrio di queste differenze.
In un ipotetico indice delle cose notevoli – lo scrivo pensandomi/ci come viaggiatori di terre misteriose, sconosciute – forse dovrei tenere conto degli altri gangli di questo sistema di avvertimento esterno. O forse dovrei scrivere un catalogo di quello che resta con il rischio anzidetto della difformità nell’intervallo di tempo trascorso dal nostro ritorno. Preferisco ricordare un luogo e la nostra interazione. Si trattava di una vecchia cantina sociale abbandonata. Ci siamo entrati (era difficile lo scavalcamento) alla rinfusa e secondo la curiosità, le paure e i ritmi che ognuno di noi gestiva in modi diversi. Dentro c’è chi si è riposato, chi ha cercato tracce presenti, crepe nella struttura, poesia di abbandono, silenzio, oggetti da portare via. C’erano bottiglie di prima generazione (quelle della cantina) e di seconda (le tracce di un rave). Non era più una cantina sociale e lo era ancora. Era uno spazio vuoto ma anche sociale (le bottiglie seconde – in numero incalcolabile – erano tutte della stessa marca di birra e quindi rappresentavano un gruppo di consumo quasi). Forse non lo sarebbe stata più cantina né sarebbe diventata altro. O l’altro che era stata (spazio di festa) lo era stata in segreto. Era un luogo in transito tra una cosa e tutto. O nulla. Non sarebbe potuta essere altro che quello che era stata ma non potendolo più essere forse sarebbe morta in questo vuoto. Tra la campagna in cui era pienamente iscritta e l’industria che falliva, finiva in quell’abbandono. E’ in un luogo così che forse va celebrata la distanza presente tra città e non-città. Come un cimitero delle intenzioni. Forse i luoghi della transustanziazione sono così: alberi che mangiano la civiltà che aveva mangiato altro spazio di bosco. Nello stesso luogo una guerra a due versi tra civiltà e Natura.
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