Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Se non avete 40anni, se non siete nati in un paese se...se ...se... Forse non conoscete o non ricordate le radio con le dediche. Da Caterina di MonteSacro a Mario di San Giovanni...avete presente? Forse sì. Questa è Minuetto ed è una dedica a me. La metto anche se
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1 Le fette biscottate PANMONVISO AI CEREALI BISCOTTO SALUTE Queste
2 Le fette biscottate PANMONVISO BISCOTTO SALUTE comunque e sempre
Mi piacciono i prodotti che non vedo in pubblicità. Mentre ci sono alcuni prodotti che se vedo in pubblicità so che mai comprerò. Uno è sicuramente l'inflazionatissimo dessert al limone o mandarino ecc Non mi piaceva prima quando un'orchestrina suonava in un baglio. Non mi piace ora. Non mi piace il tema del rutt(in)o della ragazza. Diciamo che in genere rutti e scuregge in pubblicità non mi piacciono anche se li fanno teneri scoiattolini. Non mi piace la parola "costipato", l'alito pesante, "quel senso di bruciore", le mani che massaggiano la pancia. Non sono perbenista è solo che forse sono della generazione che certe cose se le vedeva dal farmacista o dal medico. Passi per il malditesta, e per la pomata post-urto. Per i dentifrici (ma non esageriamo per favore con l'effetto pulente, le setole umanizzate). Il resto, boh... Persino gli assorbenti femminili (se si vedono, se non si vedono, se comunque riesci a balalre nonostante tutto), le paste per le dentiere non mi sembrano temi da advertising. Ma io sono solo un semplice e morigerato consumatore ovvero alla fine della casta.
Ma com'è fragile la memoria - Intervista ad Agualusa Roberto Carvelli
Anche per chi è più smaliziato è una grande tentazione quella di chiedere a uno scrittore chi sono i suoi riferimenti letterari. Con domanda più immediata: quali sono gli scrittori che ama? Sarà che è possibile creare una famiglia anche letterariamente e forse scoprire nomi in comune aiuta a capire quanti gradi di separazione ci distanziano. In pratica, una sorta di parentela o un'amicizia. Nel caso di José Eduardo Agualusa, scrittore angolano (nato da Huambo nel 1960) di lingua lusitana (vive tra Lisbona, Rio de Janeiro e Luanda), il gioco genealogico ha forse una ragione in più. La ragione è quella di una letteratura che qui da noi poco si conosce. E dunque, veniamo alla famiglia di Agualusa, questa: «Ci sono tanti modi di essere angolani. Io sono un angolano di origine portoghese che parla portoghese come lingua madre. In generale, in Angola c'è sempre stata un'attrazione per la letteratura latino americana, in particolare per quella brasiliana, e la portoghese come è ovvio. Per me è stato fondamentale uno scrittore portoghese dell'Ottocento, Eça de Queirós. Poi Rubém Fonseca e Guimarães Rosa. Mentre la generazione prima della mia ha amato molto Jorge Amado». A questo manipolo vorremmo aggiungere Pessoa - specie nel suo eteronimo Ricardo Reis - che nel libro di Agualusa ha la sua fetta di citazioni. Eppure il protagonista del libro dello scrittore angolano è Borges, rinato geco, che annidato tra le pareti di una casa ci racconta il destino di Felix Ventura, di mestiere genealogista ovvero «Il venditore di passati» (la Nuova frontiera, 15 euro) cui fa riferimento il titolo di questo romanzo. Colui che ricostruisce un passato pulito a chi ormai non ne ha più uno spendibile (una delle innumerevoli metafore di questo libro). Partiamo dalla situazione del suo Paese, nel quale sappiamo che lei ha avuto difficoltà per il coraggio delle sue posizioni. Come è la situazione in Angola? «In questo momento sto scrivendo un romanzo "retrofuturista" che cerca di far vedere Luanda con elementi di nazione moderna e allo stesso tempo con le caratteristiche di una società medievale. In Angola, e più segnatamente a Luanda, si trova una società diseguale. Nello stesso spazio convivono grande ricchezza e grande povertà. Il mio palazzo a Luanda al tempo del colonialismo era un palazzo di lusso. Dopo la colonizzazione è stato occupato da persone povere. I poveri cominciano a vendere le loro case e un appartamento può arrivare a costare più di un milione di dollari. Così, in un appartamento vive una famiglia ricca e accanto, in un altro, trenta persone che dividono la casa ancora con gli animali». La scelta di utilizzare un geco per far raccontare la storia è il doppio simbolo di un camaleontismo che è anche quello dello scrittore rispetto al suo tempo? E qual è l'influenza della situazione politica del suo Paese in questa scelta della metamorfosi? «L'Angola non è ancora una nazione democratica e dunque non è la stessa cosa scrivere in Angola o, per esempio, in Italia. In questo tempo si avverte in giro una certa paura. Il governo dell'Angola si è un po' spaventato con le elezioni in Zimbabwe. Dal 1992 per la prima volta a settembre ci saranno le elezioni e il governo è in grande apprensione. Nel partito al governo premono molto le correnti che pensano di non vincere le elezioni e così si fa leva sulla paura. In un contesto simile uno scrittore deve usare questi mezzi per raccontare le proprie storie. In Angola la maggioranza non ha la possibilità di esprimersi, è compito dello scrittore dare a questi "senza voce" la parola e creare il dibattito sui temi rilevanti». Un'altra caratteristica tipica dell'Angola è la grande forbice campagna/città... «C'è una differenza in una grande città di 4 o 5 milioni di persone dove la maggior parte abita in un contesto di grande povertà. Dove ci sono pochi molto ricchi che comunque condividono questa povertà: magari hanno una macchina costosissima parcheggiata davanti al portone di casa e dentro casa non hanno acqua. Poi ci sono comunità contadine che sono rimaste al margine della guerra e hanno potuto mantenere una struttura tradizionale, hanno avuto sempre alimenti e sono state preservate dalle malattie. Non hanno ad esempio subìto il flagello dell'Aids che invece si è diffuso nelle grandi città. Ma questa è l'eccezione: la maggioranza delle comunità contadine ha subito tutto il peggio della guerra». Lei fa dire a un suo personaggio "La castità è un'inutile agonia, ragazzo, io la correggo con piacere" e "Il peccato peggiore è non amare". Sembra una specie di trionfo dell'antitesi. «C'è un riferimento alla biografia di Borges, quando il padre, per svezzarlo, lo indirizzò da una prostituta senza che lo scrittore però riuscisse a trovare l'amore. Tutto il libro in realtà riguarda la costruzione della nostra storia a partire dalle memorie. La memoria è una cosa fragile perché ci sono sempre tante versioni di una storia. Questa è l'ambiguità su cui è costruito il romanzo: la fragilità della memoria. Non si sa mai se quello che racconta lo scrittore è verità o finzione. Il tutto è un omaggio ironico a Borges. Una piccola vendetta verso un uomo che ha sempre avuto un'idea altezzosa nei confronti degli altri paesi latinoamericani e dell'Africa».
Questa poesia mi ha acceso Antonia Pozzi. La trascrivo e via così.
Alpe
Sulla parete strapiombante, ho scorto una chiazza rossastra ed ho creduto che fosse sangue: erano licheni piatti ed innocui. Ma io ne ho tremato. Eppure, folle lampo di un tripudio e saettante verità sarebbero un volo e un urto ed un vermiglio spruzzo di vero sangue. Sì, bello morire, quando la nostra giovinezza arranca su per quella roccia a conquistare l’alto. Bello cadere, quando nervi e carne, pazzi di forza, voglio farsi anima; quando, dal fondo d’una fenditura, il cielo terso pare un’imparziale mano che benedica e i picchi, intorno, quasi obbedienti a una consegna arcana, vegliano irrigiditi. Sulle vette, quando la brezza che ci sfiora è l’alito di vite arcane riarse di purezza ed il sole è un amore che consuma e, a mezza rupe, migrano le nubi sopra le valli, rivelando a squarci, con riflessi di sogno, la pensosa nudità della terra, allora bello sopra un masso schiantarsi e luminosa, certa vita la morte, se non mente chi dice che qui Dio non è lontano.
Pasturo, 28 agosto 1929
Come soldatini o puapazzetti in un fustino del detersivo aspettiamo che una mano venga a pescarci per portarci fuori da questo pozzo in cui stiamo accatastati l'uno sull'altro come in una fossa comune. Dateci la luce, dateci l'aria, fateci essere plastica con una piccola vita: quella di chi, non avendo moto proprio, deve essere azionato. Un piccolo movimento che basterà a renderci unici e quasi umani.
Di prima mattina. Accenti diversi. Parole che sventolano come bandiere di Stati. E io che penso alle linee di confine che hanno disegnato le lingue - o viceversa? - a quanti modi per svegliarsi con l'impressione dell'alterità. A due che in questo momento, da qualche parte, non si stanno capendo eppure... Eppure tutto il resto: lavorano, si amano, si chiedono indicazioni, si passano oggetti in un cantiere. Cose così. E' mattina. Non approfondisco.
Di blog. Mi piace leggere questo www.internazionale.it/interblog/?blogid=23 di Internazionale di cui è autore Claudio Rossi Marcelli. Ve ne linko uno (sotto). A proposito di Internazionale invece non manco mai di leggere ogni settimana la piccola striscia di Gipi. Questa settimana era dedicata ai tassinari, alla violenza sulle donne quella sollevata dal rango di violenza sotto la specie più autocompiaciuta del machismo o della virilità che dir si voglia. Insomma ecco che vi invito a riflettere di quanto male ci costa la nostra scelta sessuale e di quanto bene potrebbe, invece, portarci se riuscissimo a domarla. Di seguto il post di CRM.
Né gay né ebrey La competizione per fare il testimone di nozze per una cara amica può essere un gioco molto, molto pericoloso.
Quando ha annunciato che si sarebbe sposata in chiesa, noi abbiamo tutti storto il naso. La mia amica G è atea, anticlericale e di discendenza ebraica. Ed è stata per anni una grande frequentatrice della zona bestemmia.
Ma poi ci ha spiegato che lei e il suo futuro marito amano molto l'aspetto estetico e tradizionale del matrimonio cattolico: il vestito bianco, il bouquet, lo scambio delle fedi. Insomma, l'amica G ci ha fatto sapere che si sposa in chiesa un po' per lo stesso motivo per cui lo fa un numero sempre crescente di giapponesi: perché è tutto così carino!
Tranquillizzati da questa concezione pagana delle nozze, ci siamo buttati tutti a capofitto nei preparativi e, a oltre un anno di distanza dall'evento, già passiamo delle ore a discutere dei minimi dettagli.
Ieri c'è stata una delle discussioni più infuocate: la scelta dei testimoni. L'amica G ha scelto di averne solo due (eliminando la triste usanza di averne tre, quattro, cinque di cui però solo due "firmatari" con un ruolo istituzionale). Scelta sobria e giusta. Ma chi saranno questi due?
Il primo è suo fratello: un mio amico carissimo con cui recentemente avevo litigato a morte su Facebook e con cui, ho il piacere di annunciarvi, ieri ho fatto pace in modo, molto affettuoso. Per il secondo posto è chiaro a tutti che i principali contendenti siamo io e la migliore amica di G.
Ma c'è un problemino. Anzi due: io sono un gay con prole e l'altra ragazza è un'ebrea che di recente si è trasferita a Tel Aviv per essere ancora più ebrea. Due persone che la chiesa non farebbe i salti di gioia ad avere davanti all'altare e soprattutto due persone che non sarebbero così contente di firmare un documento dove dichiarano di essere cristiani cattolici, di non convivere, di non usare contraccettivi e, implicitamente, di non essere né gay né ebrei.
Che serva firmare il documento, però, è tutto da vedere. Di certo lo fanno firmare ai padrini/madrine di battesimo (me lo ha raccontato tra le lacrime un'altra amica che, appena mollata dal suo convivente, ha dovuto anche firmare una dichiarazione di NON essere convivente). Ma il testimone di nozze penso che sia una figura del diritto civile: tipo il tizio in fila dietro a te che ti fa da testimone per la carta d'identità.
E poi c'è la questione sacramenti. Bisogna essere battezzati/comunionati/cresimati per poter fare da testimone? Questo giocherebbe a mio favore perché io, al contrario della mia rivale di Tel Aviv, sono cresimato. Eh sì, lo so, un brutto scherzo del destino (o un brutto scherzo di mia madre, per essere più precisi), ma è così.
Comunque, stretta tra tutte questi dubbi e difficoltà, che nessun forum di matrimoni e future spose è riuscito a risolvere definitivamente, l'amica G ha cominciato a pensare di scendere al gradino di candidati sottostante. Dopo il gay e l'ebrea, ci sono a parimerito le tre amiche dell'università. Tutte e tre cristiane, tutte e tre rispettabili, tutte e tre presentabili. Appunto, tutte e tre: come fare a sceglierne una senza che le altre due rompano l'amicizia in preda allo sdegno e alla delusione?
A quel punto sono cominciati a uscire i nomi più assurdi come candidati testimoni: l'amica del liceo che G non vede più da anni, la cugina a cui non ha quasi mai rivolto parola, il figlio della portiera a cui era così affezionata.
Insomma, il caos più totale. Per facilitare le cose, allora, io ho fatto un nobile passo indietro: "Cara G, io spero che i testimoni possano essere anche di altre religioni e quindi ritiro la mia candidatura e endorso la mia rivale (Yes, we can!). Ma a una condizione: che le mie figlie possano essere le mini damigelle che precedono la sposa spargendo petali di rosa".
Un atto di profonda umiltà che apparentemente mi avvicina alla chiesa delle origini, ma che invece avrà l'effetto di rimettere me e la mia famiglia al centro della funzione. Perché lo sanno tutti che i testimoni non se li fila nessuno, mentre i paggetti sono i veri attori non protagonisti di un matrimonio.
Non capita spesso di avere buone sorprese dal web e in specie dal mondo dei blog ma mi piace scoprire grazie alla mia amica lontana ma sempre presente nelle letture e negli scambi epistolari - Rima - questo piccolo spazio di racconti fuori dal Continente. Lo scrive una ragazza italiana, Viviana, con una grazia leggera che rafforza lo stridore di certi contrasti che racconta. Aveva ragione la mia amica: "si legge come un romanzo, un pezzo di seguito all'altro senza pausa, come se si volesse andare avanti in una lettura seriale". Mi domando come mai si dia e si sia dato tanto spazio editoriale a quei campionari un po' veloci di sessopratica e non abbia trovato luce nella stessa onda "esperienziale" una generazione di cooperatori, sostenitori del diverso, aiutanti nella lotta alla emarginazione, scopritori e raccontatori di altri mondi. Qui vi segnalo un post recente. Il resto lo trovate qui. Dimenticavo: Il titolo del blog è You still have the waves in your eyes
Qui, a scuola picchiano i bambini. L'ho scoperto mesi fa, in una serata qualunque nel sottobosco con qualche amico di Orisha. Parlavano di quando erano alle elementari, di quando la maestra tirava fuori la riga. Non potevo credere a quelo che stavo sentendo, mi sembrava una cosa da Medio Evo. E da quel momento ho cominciato a sollevare l'argomento con frequenza, per capire quanto questa pratica fosse diffusa, ma soprattutto per sentire le opinioni della gente. "Ma certo, tutti le prendono, prima o poi", mi diceva una ragazza con una scrollatina di spalle. L'ho chiesto a molti, tutti hanno confermato, nessuno e' stato risparmiato. Chi piu' chi meno, tutti le hanno prese.
"Ma Vivi, devi capire che questa non e' l'Europa", mi diceva Trudy. "Qui i ragazzini non hanno rispetto. Crescono in strada, senza padri, senza figure di riferimento. Non sanno nemmeno cosa sia l'autorita'. Non ascoltano, disturbano, distruggono le sedie, le aule. Come si fa a tenerli sotto controllo senza il pugno di ferro? Come credi di poterli minacciare?", "Con una nota, un brutto voto?" ho azzardato io. Lei e' scoppiata a ridere. "Cosa vuoi che gliene importi ai piccoli delinquenti di un voto o di una nota? Cara grazia se vengono a scuola!". Il ragionamento a suo modo teneva, ma io ero agghiacciata. Semplicemente, non era una soluzione accettabile.
Man mano che proseguivo con le domande mi si formava un quadro piu' completo della situazione. I piu' fortunati venivano colpiti solo sulle palme delle mani. I piu' discoli ricevevano botte sul sedere. La cosa forse piu' scioccante e' stato scoprire che nella maggior parte dei casi non si trattava affatto di colpetti simbolici, ma di vera e propria violenza sui bambini. Un ragazzo grande e grosso con un sorrisone bianco sulla faccia nera ricordava di quando andava a scuola con cinque paia di pantaloni sovrapposti, perche' gia' sapeva che le avrebbe buscate, e cosi' avrebbe fatto meno male. Mi sono chiesta quanti pianti ingoiati stessero dietro alla sua risata indifferente.
Un'altra brutta scoperta e' stata l'arbitrarieta' di questo trattamento. Coloro che hanno frequentato scuole piu' o meno prestigiose hanno vissuto questa esperienza solo come metodo disciplinare, che per quanto aberrante aveva una sua logica. Ad ogni errore corrispondeva un numero preciso di botte, e punto. Era un sistema di giustizia. Ma i ragazzini piu' indisciplinati, o quelli che finivano nelle scuole peggiori, ricevevano un trattamento ben diverso.
Ne parlava anche Mister K in uno dei suoi shows nel cortile di casa, in cui lui regolarmente commenta i piu' delicati argomenti di attaulita' traducandoli in un linguaggio comprensibile ai suoi amici cannaioli. "I bambini vengono picchiati nella piu' assoluta impunita'. Da maestri che non fanno altro che sfogare le loro frustrazioni. Che ci godono. Pieno cosi' di maestri che ci godono". E faceva l'imitazione di una maestra sadica che picchiva, picchiava e godeva, e i suoi amici ridevano a quello spettacolino grottesco. Poi lui si zittiva per un secondo, pieno di rabbia. E su tutti loro passava un'ombra di qualche ricordo fugace a cui non potro' mai avere accesso.
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