Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 14:15:40, in diario, linkato 1630 volte)
Approfitto dell'uscita del 3° numero della rivista internet Il seme sotto la neve www.ilsemesottolaneve.org (bel titolo da un libro di Ignazio Silone) per postare una recensione che spinge curiosità. E' interessante il tema della ipervolubilità degli acquisti e la concentrazione delle uscite editoriali. Un tema che prima toccava i piccoli (autori/editori) e sempre più tocca i grandi (autori/editori/casi in montaggio e smontaggio repentini nonostante "manovrine" varie).
“Le ultime ore dei miei occhiali” di Nino Vetri recensione di Fabrizio Ottaviani
Il successo o l’insuccesso di un romanzo – in questo caso di un racconto lungo; negli Stati Uniti lo chiamerebbero forse novelette – può dipendere da mille ragioni. Può accadere, per esempio, che sia soffocato dai suoi stessi compagni di scuderia. Qualcosa del genere è accaduto con Le ultime ore dei miei occhiali, opera prima del siciliano Nino Vetri, edita da Sellerio. Nelle stesse settimane in cui usciva il romanzo di Vetri comparivano infatti sugli scaffali delle librerie due testi, sempre per i tipi della Sellerio, che gli facevano concorrenza: il romanzo di Pietro Grossi L’acchito, il cui esordio l’anno scorso era stato molto apprezzato dai critici; e un singolare volume, Il correttore di bozze a firma di Francesco Recami, il quale prova ad estrarre da uno dei mestieri più misconosciuti, fra quelli che ruotano attorno alla carta stampata, una sorta di metafisica – ma senza alcun radicalismo cabalistico – della parola o della cifra.
Schiacciati tra Grossi e Recami, Le ultime ore dei miei occhiali hanno finito, quasi per contrasto, con l’essere appiattite e ricondotte agli aspetti più superficiali. In due parole, si è visto in esse l’ennesimo specimen di letteratura adolescenziale, da mettere accanto al celeberrimo e frusto – per le letture che se ne danno, non per il valore intrinseco – Giovane Holden. Quando invece il racconto di Vetri è ad un tempo più esile e più profondo. Anzi forse sta proprio in questo il valore del volumetto del siciliano: nel contrappunto fra un “motivo” adolescenziale virgolettato e ritmico, disteso da un candore compiaciuto e adorabile, da una parte; e quello spesso, greve, composto da due voci, che rimbomba minaccioso dall’altra.
La prima linea narrativa è quella del giovane protagonista, impegnato in un’attività molto comune fra gli adolescenti, la costituzione di una band: «Qualche tempo dopo aver comprato il disco dei Ramones cominciai anch’io ad andare in giro col giubbotto di pelle e i pantaloni strappati alle ginocchia».
L’altra fa capo invece alla figura del nonno defunto: «Mio nonno cambiava spessissimo i connotati. Una volta aveva dei baffetti sottili, un’altra volta il pizzetto, qualche volta la barba. Ma sempre le mani ai fianchi e il mento puntato verso l’alto. Un retaggio. “Non facciamo i mammolini”, diceva».
Ma per comprendere in tutta la sua criminale estensione in cosa consista tale misterioso “retaggio” bisognerà compulsare l’ultima pagina, un explicit che sorprende per incisività. L’espediente geniale di Vetri è stato di inserire, fra il “retaggio” del nonno e il piacevole egocentrismo del nipote, una sorta di filtro, di membrana osmotica in via di saturazione. È il monologo, sempre più vago ed opaco, del padre, la generazione di mezzo. Ed è significativo che si tratti di un malato di Alzheimer il quale, fra la costernazione di tutta la famiglia, comincia a non ricordare più dov’è il frigorifero di casa, ripone il pane nell’armadio e quando esce a comprare qualcosa torna poco dopo a mani vuote perché non sa più la ragione per la quale era uscito.
Snodandosi lungo questi binari – il giovane protagonista impegnato nelle prove di un concerto; il padre perso dietro ricordi così lontani (la guerra, con le incursioni dei bombardieri americani e le fughe sotto l’urlo delle sirene) da essersi messi in salvo dall’Alzheimer; il nonno, del quale emergono a poco a poco le reliquie (un fucile mitragliatore tedesco, o il mucchio di negativi fotografici dai quali, opportunamente stampati, emergerà la lugubre sorpresa finale) – Le ultime ore dei miei occhiali dimostrano che è possibile, con materiali leggeri, costruire piccoli capolavori di narrativa; riuscendo perfino a nascondere, fra le pieghe delle parole, qualcosa che assomiglia a un’indigesta verità: che l’“umanità” di una persona può entrare a regime su piani molto distanti dalle sue azioni; e che la simpatia, il calore o l’affetto non sono necessariamente un rimedio perfetto contro la barbarie.
(L’Autore è critico letterario de “Il Giornale”)
Nino Vetri Le ultime ore dei miei occhiali Sellerio, Palermo 2007 Pag. 80. Euro 10
Di Carvelli (del 27/03/2008 @ 11:57:46, in diario, linkato 1299 volte)
Delle volte mi scoppiano nella bocca frasi che dovrei trattenere. Delle volte succede tutto troppo velocemente e non faccio in tempo a frenare la lingua o a chiudere la bocca, a mettere silenzio tra pensiero e parole. Ieri ho pensato e fortunatamente non ho detto né scritto a chi mi aveva mandato il suo numero di telefono
"OK, SEI NEL MIO DATA-BASE"
Di Carvelli (del 26/03/2008 @ 08:54:44, in diario, linkato 1298 volte)
L'attenta lettrice L (L sta per Lettrice, infatti, ma non solo) ha remissato alcune cose che ho scritto negli ultimi tempi. Ecco il suo remix. Non è ballabile ma leggibile sì. (Grazie)
una tortura sobria e ben pagata Ne verremo fuori tardi e male
"Molte cose trovano il tempo ma il tempo non trova molte cose"
Ein Hungerkünstler
Cosa resta, cosa cambia
l'aria nebulosa e vaporosa che hanno i ricordi lontani vivo senza presenza C'è vita nei sogni?
essere stati felici in una stanza buia
non esistono cose importanti - intendo "veramente importanti". E, viceversa, c'è veramente poco da fare per le cose necessarie, definitive.
Metto un punto Su questo foglio bianco Dove avevi già scritto E poi cancellato Tutto tu. Aggiungo un segno semplice, Il più semplice. Scolorirà in un giorno. Guardo Questo inverno-primavera In cui ci diciamo addio. Guardo il posto che ti è stato assegnato Dalla sorte bracciante Per sprofondare nel futuro. Mi dico che niente sarà più uguale a niente Ora che ci siamo ritrovati In quest’assenza numerosa E che domani ti farà piacere Sentire fumare il mio caffè.
Di Carvelli (del 26/03/2008 @ 08:43:24, in diario, linkato 1017 volte)
Naturalmente ci sono altre cose interessanti ma intanto mi piace segnalarvi questa intervista da una nuova rivista, al suo terzo numero, TRILOBITI. Di seguito l'emblematica storia di Valentina Brunettin (già Campiello giovani)
www.trilobiti.it/meteoriti/brunettin-campiello.html
Perché un Campiello è sempre un Campiello Federica De Maria (a cura di) | 25-03-2008 | ITA “Ho voglia di scrivere da morire”, confessa Valentina Brunettin. A 17 anni vince il premio Campiello Giovani. A 27 si scopre desiderosa di ricominciare. Storia di una cultura che “consuma” talenti troppo in fretta.
Valentina Brunettin, ma tu, chi sei? Raccontati. Ho 27 anni, una laurea in Lingue e Letterature Straniere, uno stipendio in un ufficio legale udinese e una grande voglia di tornare a scrivere decentemente e di produrre qualcosa di interessante. Anche senza essere pubblicata.
Ma tu, chi sei stata? Ricordati. Mi cimento in questo atto di rullamento del mio passato para-artistico come segue… Ho iniziato a scrivere a 13 anni e, lo ammetto, nonostante i miei buoni propositi, mi sono ritrovata a buttare giù pezzetti di romanzi e racconti, mai terminati, il cui centro era sempre una bella storia d’amore gay. Ho cominciato a preoccuparmi quando, giocando con la Barbie, mi piaceva inventare storie dove Ken biondo e Ken moro (perché ne avevo due!) si mettevano a dormire insieme a Barbie che – sedotta e abbandonata dal più bisex dei due – andava ad abortire in gran segreto o partoriva (sempre in gran segreto) assistita dal suo miglior amico Big Jim (rubato al corredo di giocattoli di mio fratello). Alla fine, dal teatro delle bambole sono passata alle parole scritte. Pensa che il mio primo racconto con inizio e fine (ormai cestinato) si chiamava “Misha nel buco della serratura” ed era un racconto dichiaratamente gay. Ovviamente la mia famiglia aveva intuito questa mia passione, ma pensavano tutti che scrivessi stile Moccia: amori, amorazzi, bacini. Poi, a 17 anni, arriva il bando di concorso del premio Campiello Giovani. Mando L’antibo e per un soffio non supero il limite di pagine imposto. E a settembre mi ritrovo alla finalissima con altri quattro ragazzi. Di quel weekend veneziano ricordo l’emozione e l’allegria e il piglio da finti intellettuali che ci caratterizzava un po’ tutti. Ci sentivamo veri scrittori, e l’età media era 16 anni. Al mattino vengo nominata vincitrice nazionale. Mia madre per poco non sviene, io scivolo sul marciapiede davanti a venti fotografi sorridenti e poi per l’emozione della vittoria praticamente smetto di mangiare fino a sera. Poi la diretta (in seguito differita) su RaiUno, il ritiro della targa vittoriosa e l’abbraccio di Nancy Brilli, piccola ma carina. Grande cena a Palazzo Ducale e affollamento al banchetto-catering. Alla fine mi ritrovo nel piatto, dopo dura lotta, un po’ di polenta e una pallina di gelato. Di più non si riusciva a ottenere. Una settimana dopo la vittoria, la Marsilio mi chiama e mi dice che L’antibo può uscire dall’antologica storia del Campiello Giovani e andare avanti da solo. Lo estrapolano, lo stampano e inizia un po’ di promozione, ma veramente minima (d’altronde non era possibile fare di più).
Ma tu, come ti sentivi? Confidati. Ero davvero entusiasta di quello che stava capitando. Tuttavia ero spesso in imbarazzo di fronte al pubblico di quella o quell’altra conferenza perché il miniromanzo parlava della storia d’amore tra uno studente e un professore di filosofia. Il romanzino non è granché, o meglio, lo ritenevo anch’io notevole per una ragazzina, ma alla fine lo stile iperbarocco faceva sbadigliare anche me, quando scorrevo un paio di pagine. Due anni dopo la Marsilio mi richiama e mi invita nella sede editoriale. X. mi riceve con un sigaro e la sua prima domanda è: “Signorina, ma lei, che cosa vuol fare da grande?” “Bhé, non saprei… laurearmi… fare l’insegnante… ” “Ma nooo. Intendevo nel campo della letteratura… ” Insomma, aveva fiducia in me e nonostante le poco entusiastiche vendite del piccolo Antibo, mi dice che vuole darmi un’altra possibilità. Io avevo appena iniziato Fuoco su Babilonia e lui mi chiede di inviargli le prime dieci pagine. Da lì avrebbe deciso: se sì, quella era la mia ultima occasione, perché non poteva andare in perdita a causa di un sesto senso errato. Le prime dieci pagine andarono bene. Ci fu un anno intero di lavoro. Io scrivevo, inviavo, la correttrice sistemava. Alla fine fu necessario un taglio di 100 pagine. Di cui non mi sono mai pentita, anzi. Ne venne fuori comunque un tomo, ma la tematica “storia d’amore gay + sterminio nazista” mi sembrava molto accattivante. E poi io letteralmente adoravo i personaggi e li ho vissuti per due anni con una tale intensità che alla fine nell’immaginazione ne sentivo le voci, vedevo le espressioni… tutto. Finire Fuoco è stato come condannare a morte la mia fantasia che, devo ammetterlo, a tutt’oggi non ha mai galoppato così tanto come in quel periodo.
Ma tu, che pensavi? Dillo. Vabbé, la pubblicazione è stata fortunata, coincideva con la prima edizione di “PordenoneLegge”. Oltre a un mio love-affair con Y., ci ho guadagnato un po’ di visibilità. Ogni mese la casa editrice mi inviava recensioni e articoli, mi fissava appuntamenti e premiazioni (p.s. la gran parte dei premi letterari è pilotata…) Qualche critico voleva spellarmi e mettermi sotto sale e limone, altri mi volevano già bene. Ma il problema era rendere accettabile il tema dell’omosessualità maschile, anche se alla fine ho compreso che l’ostacolo maggiore, forse, non era quello, ma il mio stile. Troppo prolisso e ridondante.
Ma tu, perché hai pubblicato? Incoraggiati. La meraviglia dell’essere pubblicati, per uno scrittore, non è il senso di sazietà egocentrica che dà e tanto meno la possibilità di entrare in contatto con mondi/persone un tempo preclusi. Secondo me vedere la propria opera pubblicata significa darle una forma e collocarla nel tempo-spazio. Uno scrittore si sente come se avesse lasciato una traccia e poco importa se vende o non vende. C’è qualcosa che, dal momento della stampa in poi, segna la tua presenza. Ovviamente il romanzo ha venduto poco e non è stato il successone che alla Marsilio prevedevano. Ergo, X. si è rintanato in un distinto silenzio da cui è uscito due anni fa con una telefonata impiegatizia per chiedermi se volevo acquistare le copie rimaste oppure optare per il macero. “La seconda che hai detto”, risposi, stile Guzzanti. Un libro che vende poco e uno scrittore che di conseguenza “si vede” poco hanno un solo destino: sparire. Ciao articoli di giornale su commissione, ciao recensioni, ciao conferenze. Il circo allegro e vagamente vip ti dà un calcio nel sedere e così sia. Sono tornata alla mia vita normale e tuttavia la mia passione, la scrittura, ha risentito del retrogusto amaro della vicenda. Sarei un’ipocrita dicendo che tutto è tornato come prima perché non è così. La voglia, le idee, lo spirito di scrivere barcollano, quindi ho preferito studiare, laurearmi [ndr. Con 110 e lode, nemmeno un mese fuori corso, voto minimo sul libretto? 30/30], cambiare ottocento lavori e alla fine ritrovarmi a fare l’impiegata full optional.
Ma tu, che cosa hai scritto? Addentrati. L’antibo, dunque. Bo ha 16 anni, è di origine americana e ha serie difficoltà a studiare. In biblioteca incontra Adriano, un professore di filosofia che gli dà una mano, diventa suo amico, amico particolare. La storia si intreccia passo per passo con quella dell’imperatore Adriano e di Antinoo. Alla fine il secondo si suicida come realmente (pare) accadde, Bo invece ci ripensa ed esce più o meno intero dal suo stato depressivo-malinconico da adolescente. Ed esce anche dalla vita di Adriano dopo un outing con la famiglia. In Fuoco su Babilonia, Spiegel “lavora” in un postribolo per uomini insieme con alcuni suoi amici. Siamo nella Germania nazista. Per una soffiata, il postribolo viene scoperto e sfasciato, con conseguente arresto di tutti e deportazione di Spiegel e Tizian (suo collega e migliore amico) in un campo di concentramento Lì, fra molte sfortune, Spiegel viene scelto per i suoi modi gentili come cameriere di un ufficiale SS. I due diventano amanti, consumano sesso fino allo spasmo. Poi il campo viene liberato. Il nazista scappa e Spiegel, a pezzi per le sofferenze e l’amore, ritorna in città con il suo amico Tizian. Lì, tra bombardamenti e miseria, si fidanza con un medico pur non amandolo così appassionatamente. La storia fra i due va avanti finché, per circostanze quasi casuali, Spiegel riuscirà a incontrare di nuovo l’ufficiale nazista, poco prima che questo affronti il processo e la probabile esecuzione.
Ma tu, sei in o out? Lamentati. Se penso alla reperibilità dei miei romanzi, non posso lamentarmi. Ci sono esordienti che sono stati pubblicati a pagamento da case editrici poi dissolte nel nulla; aspiranti artisti che hanno prodotto cento copie presso un editore parrocchiale; giovani romanzieri che aspettano una risposta da sei anni. Io ho trovato una buona casa editrice, non mi ha pagato ma non mi ha nemmeno spennato, e ha tentato la promozione dei miei libri come poteva. Sono contenta, sinceramente non mi sento di accusare nessuno e, per quanto con tono dolceamaro, mi ritengo fortunata di aver provato l’ebbrezza di venir chiamata “scrittrice” a 18 anni.
Ma tu, che cosa sai? Svelaci. Mi sembra che attualmente il mondo della letteratura italiana funzioni più o meno così: gli scrittori sono tutti una famiglia allargata, si amano e si odiano, ma alla fine nelle occasioni importanti sono tutti uniti. Chi ti fa la recensione giusta è un tuo amico, un giorno dovrai ricambiargli il favore. Chi ti ospita alla Fiera del Libro è un tuo conoscente, un giorno dovrai combinargli un incontro con il Papa. È così, ma non è poi così scioccante come sembra. Perché io mi sono presa questa randellata stile Britney Spears della letteratura? Beh, perché l’editoria è commercio, non arte. E perché ci sono mezzipersonesistemi per poter guadagnarsi una nicchia nella lobby degli scrittori riconosciuti che io non ho saputo accogliere.
Ma tu, chi sarai? Anticipati. Non mi rimane che fare l’impiegata, comprarmi un etto di stracchino alla settimana e farmi fare la French manicure per consolarmi. In realtà faccio tutto quello che credo facciano gli scrittori decaduti: trascurando i più (s)fortunati che si convertono in opinionisti o manager di profilo artistico, lavoro per vivere e ogni tanto produco qualche testo, magari lo invio a un concorso letterario rintracciato chissà-dove nella speranza di vincere un assegno, una pubblicazione anche antologica, una targa in Silver Plate o un weekend in una malga con tomino in omaggio.
Ma tu, stai scrivendo? Promuoviti. Ultimamente ho scritto un racconto segnalato sul sito del concorso “Frontiere-Grenzen”. In genere, in questi ultimi tempi, mi dedico ai racconti brevi. Cinque di questi li ho collezionati in una mini-raccolta che provvisoriamente si chiama “Non mettere le dita nel naso”. Il primo racconto narra la storia di uno stupro, il secondo è la storia triste di un’attrice pornografica frigida; il terzo è lo scandalo gay in una boy band stile ‘Backstreet Boys”; il quarto è la vita di un transessuale; il quinto narra un episodio di violenza sessuale su una ragazzina di 13 anni, ambientato, scritto e pensato nel sistema dei ragazzini di oggi.
Ma tu, ci credi ancora? Globalizzati. È un mondo difficile per noi miseri scrittori dimenticati da Dio, dagli editori e dai lettori. Però io, una soluzione l’ho trovata. Se mai nella vita mi dovesse capitare di ripubblicare qualcosa di mio (ora ho abbandonato il tema gay perché lo sentivo un po’ esausto; mi getto sull’autobiografico e sull’erotismo sofferente), col piffero che vado alla Fiera del Libro o al Festival di Mantova: la mia strategia sarà pubblicare in allegato al romanzo un bel calendario. Il mio calendario…
Perbacco, lo prometti? […]
Segnalovi un sito www.corrispondenzedasnova.it e in esso e da esso una lettera-risposta di Tiziano Scarpa al fondatore di suddetto sito. Vale la pena leggervi in giro un po' di materiali postali. Bella idea e manifesto, bella la grafica. Intanto Scarpa. Ecco a voi.
risposta di Tiziano Scarpa
Caro Massimiliano Borelli,
perdonami se ti do del tu, lo faccio per praticità e chiarezza discorsiva. Ho ricevuto la tua raccomandata. Hai letto il mio intervento, e sei rimasto deluso dal finale, dove ti sembro poco radicale, troppo concessivo. Secondo te dovrei dire senza ambiguità che certi prodotti di mercato fanno schifo, e che la via per creare opere interessanti sta sicuramente altrove rispetto a quelli che ho definito “romanzi d’eccellenza” (però nel corso della tua lettera cambi stranamente la dicitura, da “romanzi di eccellenza” passi a chiamarli “romanzi d’eccezione”).
Non starò a ripetere ciò che penso. Il mio intervento lo spiega a sufficienza, e dall’accuratezza con cui l’hai riassunto dimostri di averlo compreso benissimo e di non avere alcun bisogno di precisazioni.
La seconda parte della tua lettera invece mi sprona a “riaprire il dibattito sui modi del fare letteratura” (e anche in altri territori che nomini: “poesia, teatro, arte, cinema”). Ti sembrerò presuntuoso, ma mi sembra di non aver fatto altro, con molti dei miei articoli, interventi su giornali, riviste cartacee e in rete, libri di riflessione teorica e critica militante, da quasi vent’anni a questa parte. “In vista di un’ipotesi positiva di progettazione della scrittura”, dici (il corsivo è mio); anche in questo caso ti rispondo con non poca presunzione: in tutti questi anni mi sembra di non avere soltanto progettato, ma anche realizzato. Certo, se ti basi soltanto su quel mio articolo, lo troverai manchevole e superficiale.
Ma non voglio rimandarti alla mia bibliografia. Raccolgo la sfida, ti rispondo come se io cominciassi a scrivere oggi e non avessi alle spalle nient’altro che l’articolo che tu commenti.
Ho un’idea individualistica della letteratura.
I prodotti culturali sul mercato sono quasi tutti collettivi: per esempio, nel cinema, l’autore vero è un soggetto plurimo che comprende il produttore, lo sceneggiatore, il regista, lo star system che fa propendere per la scritturazione di un attore al posto di un altro forse più adatto a quel ruolo ma meno celebre, ecc.
La letteratura è uno dei pochissimi luoghi dove l’individuo singolo ha la gestione totale delle sue parole. Ciò non succede nemmeno in altri ambiti che consideriamo accettabilmente liberi (per esempio il giornalismo: anche con le migliori intenzioni, una redazione può snaturare il senso di un articolo mettendogli un titolo che enfatizza soltanto una parte del testo, ecc.).
Le fantasie collettivamente confezionate da ditte, industrie, case di produzione, nazioni, popoli mi interessano, ma io sono un singolo individuo che, in quanto tale, ha bisogno di conoscere anche le fantasie degli altri singoli individui come me.
Perciò io oggi considero un valore tutto ciò che in letteratura dimostra peculiarità individuale. Maggiore è la quota di singolarità, di originalità personale, maggiore è la simpatia preventiva con la quale mi avvicino a un’opera (naturale che poi quelli che contano sono i risultati). Disprezzo, o non apprezzo, chi si allinea al coro generale, al genere letterario preformato, chi sceglie di trattare un tema la cui importanza sociale è universalmente sancita (ma sono pronto a cambiare idea, caso per caso, se i risultati sono buoni). La letteratura per me è irriducibilità, idiosincrasia, eccezione (e di conseguenza eversione). Ciò non significa affatto che dev’essere per forza incomprensibile, tortuosa a tutti i costi o, peggio, autistica. Può esistere, paradossalmente, persino un’idiosincrasia della chiarezza, uno scrittore torturato dalla cristallinità comunicativa (Calvino…!); perciò non sono d’accordo nemmeno con il mio amato Manganelli, se assolutizza l’oscurità scontrosa.
La mia ideologia della poetica personale ha, come conseguenza, l’impossibilità di aspettarsi che qualcuno si adegui alle mie opzioni di poetica. Dunque, per coerenza, nessuna ricetta “in vista di un’ipotesi positiva di progettazione della scrittura”. Ciascuno scriva come vuole, purché cerchi di portare il suo apporto.
Credo che potrebbero tornarci utili alcune categorie della retorica classica: inventio, dispositio, elocutio.
Per quanto riguarda l’inventio nei romanzi, per esempio, quando ne leggo uno mi chiedo: lo scrittore ha inventato la sua storia o si è appoggiato a una storia già esistente? Ha usato la biografia di un personaggio storico? Ha sfruttato lo schema mille volte già narrato di un genere letterario? So bene che ci sono esiti sommi che sono partiti da una ri-narrazione, ma la mia poetica individualistica mi fa simpatizzare per quelli che inventano di più, per quelli che inventano dalle fondamenta. Mi aspetto uno scrittore che aggiunga miti nuovi al repertorio umano, non solo che li ri-racconti.
Ecco, tenendo presente questa mia simpatia per l’originalità individuale, e mantenendo per comodità le etichette con cui la retorica classica nominava le parti dell’elaborazione della scrittura, mi pare che oggi sia debole soprattutto l’inventio.
La dispositio, ossia la distribuzione delle parti del testo, l’architettura del libro, è ormai alla portata di molti: la sagacia del montaggio ci viene da un lungo apprendistato di millenni di teatro e secoli di romanzi e cento anni di cinema e fumetto, non è difficile tessere un intreccio ben dosato nella successione delle sequenze.
L’elocutio può essere una discriminante illusoria per valutare la stoffa di uno scrittore e la qualità del suo libro, ma anche “in vista di un’ipotesi positiva di progettazione della scrittura”: si contrappongono gli scrittori chiari agli oscuri, quelli che scrivono facile (i democratici) a quelli che scrivono difficile (gli elitari), ma il punto decisivo secondo me (almeno nei romanzi) è un altro. Mi capita di leggere parecchi romanzi scritti bene, anche di autori inediti: ormai tutti, o quasi, sanno “scrivere bene”, nel senso che sono capaci di mettere insieme una storia ben montata, un intreccio ben calibrato, con una scrittura che può essere, a seconda, efficacemente chiara e servizievole, votata alla comprensibilità, oppure virtuosisticamente elaborata, ecc.
Semmai mi sembra che in molti casi il difetto che hanno questi libri sia a livello di ideazione (l’inventio): l’originalità della trama, l’interesse della vicenda, che appassioni, sì, ma non mortifichi la complessità dei personaggi spingendoli a fare atti implausibili per puri scopi narrativi, ecc., e, d’altro lato, non impantani noiosamente l’imprevedibilità del destino ancorandolo al rispetto pedante per la verosimiglianza.
Conosco molti romanzieri, anche già affermati, bravissimi nello scrivere dialoghi, ritrarre caratteri, alternare sapientemente descrizioni e scene d’azione, che però non hanno lavorato fino in fondo nell’ideazione, non hanno dato forma a una storia sviluppandone fino in fondo le potenzialità. Mancano di fantasia. La fantasia, sì! È questo il nodo cruciale, e anche lo scandalo della letteratura. Alla fine, la letteratura e in particolare il romanzo è il luogo in cui un individuo propone alla collettività le sue fantasie. Bisogna che i romanzieri abbiano la forza, il talento, il coraggio di fantasticare.
(Dove poi accada la fantasia, non saprei dire in assoluto. Per quanto mi riguarda, accade nella scrittura: non stendo scalette prima di scrivere, perché scrivere non è trascrivere, non è riversare nelle parole ciò che è già stato fantasticato. Io fantastico dentro le parole scritte, durante la stesura. Ti faccio un esempio-limite: Groppi d’amore nella scuraglia è indistricabile dalla lingua in cui è scritto. Non avrei potuto fantasticare quella storia e quei personaggi pensandoli fuori da quella particolare lingua, tutto ha preso forma scrivendo. Ma non sarei sincero se tacessi che ci sono state altre storie che ho pensato prima di scriverle, almeno a grandi linee. Credo di essere onesto però se dico che solo nella scrittura prende corpo la fantasia romanzesca, narrativa e anche poetica: sbocciano visioni impreviste, dialoghi che non erano stati articolati preventivamente, svolte nella vicenda che sono veri colpi di scena per lo scrittore stesso. La scrittura è un accadimento in sé. Il libro, nel suo farsi, sorprende per primo chi lo scrive. E, tra l’altro, sarebbe ben noioso scriverlo se fosse la pura trascrizione di una fantasia già vissuta in precedenza nell’animo. Ma questa è, lo ripeto, la mia via: non mi scandalizzo affatto di chi stende scalette prima di iniziare a scrivere; per alcune parti di romanzi complessi è un sistema utile).
Permettimi una nota di approfondimento: quando dico che “la letteratura è il luogo in cui un individuo propone alla collettività le sue fantasie” credo di esprimere un concetto niente affatto pacifico. Non vedi quante obiezioni ragionevoli possono essere sollevate contro un’idea simile, da un punto di vista politico, o anche solo di “buona educazione” nelle relazioni umane? Ne immagino (o meglio, ne riporto) qualcuna:
“E chi sei tu, perché dovremmo badare alle tue fantasie?”
“Oh, ma sei ben narcisista, se pensi di avere delle fantasie più importanti di quelle degli altri!”
“Perché non sei più umile e al posto delle tue irrisorie fantasie non scegli quelle già fantasticate dall’umanità?”
“Perché non ti occupi delle fantasie certificate e solennemente repertoriate dalla Cultura?”
“Perché non ri-racconti la Storia, o i Grandi Miti?”
“Perché non lasci perdere le fantasie e scrivi un bel saggio?”
“Perché ti ostini a fondarti su ciò che è infondato?”
Ecco, quest’ultima obiezione è lo scandalo antropologico e politico massimo: che ci sia qualcuno che si fonda sull’infondato, sul gratuito, su ciò-che-potrebbe-essere-altrimenti (la sua fantasia individuale) e pretenda di proporla come qualcosa che può avere valore pubblico. Il fatto che sia nata ed esista e persista un’istituzione (chiamata convenzionalmente letteratura) la quale difende e tutela e promuove questa cosa (la fantasia individuale linguisticamente formalizzata) a me sembra prodigioso, storicamente inestimabile.
Esiste poi l’oceano dei libri indefinibili, che non sono romanzi né saggi, o sono tutte e due le cose, libri che forse sono raccolte di aforismi, di racconti non aristotelici, non euclidei, scritti narrativi, poetici, umoristici, non del tutto filosofici, prose come quelle di Savinio o Sebald, ecc., raccolte di scritti visionari (meglio: fantasiosi) come quelli di Calvino o Michaux o Manganelli o Cortàzar o Flaiano (o Leopardi e Kafka…), ecc. A maggior ragione, la mia simpatia per l’originalità individuale le mette al primo posto. Simpatizzo con quegli autori che si inventano tutto, non solo lo stile di scrittura (elocutio), non solo il modo di raccontare una storia (dispositio), non solo la trama e i personaggi (inventio), ma anche la radice primaria, la forma complessiva del loro libro, la ratio germinativa della loro opera.
Grazie della lettera e congratulazioni per il sito
Tiziano Scarpa
Di questo poco o nulla che abbiamo da dire una pesca che non ricordo sensazione di una attesa lanosa perfetta e sgradevole una felicità ancora tutta la sbucciare
Sul Messaggero di Roma di oggi un interessante nonché caustico (ma sobrio) articolo di Goffredo Fofi sul cinema comico italiano. Il pretesto è parlare del cinema di Carlo Verdone ma... Comunque da meditare. Linko.
Pare sole. E' sole. Pare pioggia. E' nuvolo. Siamo tutti meteoropatici. Oggi i "tutti" soffrono di quella particolare forma di meteoropatia che è "nuvolo dunque confuso, distratto". Loro in macchina io in moto: non è bene. Dovremmo avere solo un interruttore ON/OFF. Lo abbiamo ma insieme anche un TIMER. Scattiamo e passiamo così da ON a OFF e da OFF a ON e di nuovo OFF senza averne coscienza. Siamo temporizzati. Ci accendiamo quando non vorremmo e spegnerci pure. Sarebbe bello se sapessimo la nostro pragrammazione. Quanto meno. E invece no. Ci accendiamo e ci spegniamo all'improvviso. Ti chiedono: "perché ora ti spegni?" Perplessi, delusi. E noi non abbiamo nulla da dire. Delusi anche noi che il comando non è in mano nostra. Di chi? Una gamma di risposte e anche la piccola convinzione che possiamo prenderla in mano noi questa funzione timer. Sì ma per quanto? Sì ma perché? DELLE METAFORE è un appunto breve in forma di racconto di Kafka. Un racconto, in definitiva, ma più simile a un koan, un esercizio per sviluppare comprensione. Al di là della strada: siamo noi stessi una metafora di una metafora. E potrebbe servirci saperlo, esserlo? Quanto ci consola sapere di non essere reali ma simbolici? C'entra l'astrologia? E la psicanalisi? E la religione? Forse aiuta essere simboli. E metafore. Essere per altro. Ma ABITARE SIGNIFICA LASCIARE TRACCE. La frase è di Walter Benjamin, sta nei Passages. Lasciamo tracce, siamo una produzione di cose, fatti concreti. Magari sarebbe bello se fossimo produzione di simboli, di metafore ma non succede facile.
Letto IL MIO NOME SULLA SABBIA di Bonaventura Tecchi. Un libro del 1924, con quelle scritture ricche, quelle prose brevi che poi si sarebbero dette "prose d'arte". Lui, dimenticato dal tempo. Davvero. Chissà le cose che succedono nelle vite: priama e dopo. Piango. Penso "Le voglio dire questo". Penso: non posso. Non glielo potrò dire e piango. Non c'è più. Succede a teatro e all'improvviso, senza motivo: Gaspare Balsamo in CAMURRIA. Bello. Una storia di tempo, nonni e pupari. Nostalgia. Penso un po' al dolore del tempo: vi abbiamo chiesto di sacrificare il vostro tempo, l'oralità, le abitudini collettive, vi siete seppelliti in questa cella del progresso, della crescita economica e sociale e ora...ora vi diciamo pure che era tutto sbagliato. Letto Mario Tobino SULLA SPIAGGIA E DI LA' DAL MOLO. Lui è nato il 16 gennaio, io il 14. S. mi dice com'è e come non'è il capricorno, frequenta un corso di astrologia. Come siamo? Caratteristiche del segno? Anche Tobino era così? Ma che c'entra. Il libro è un libro di luoghi, di luogo. Una guida di Viareggio. A modo suo. ONORA IL PADRE E LA MADRE. Un nuovo film di Lumet. Non ne esce bene nessuno ma è bello. Philip Seymoir Hoffman è straordinario e anche Ethan Hawke è una sorpresa. Molto sesso. Strano per un film USA. Molto davvero o molto realismo nel raccontarlo. Il sesso realista rischia di non esserlo spesso neppure dal vivo figurarsi in fiction. Da cui la crisi della pornografia e da cui la crisi del sesso. Solo la testa sopravvive ma non basta.
Di Carvelli (del 14/03/2008 @ 21:13:39, in diario, linkato 1624 volte)
Segnalo le belle foto di Mario D'Angelo (a cui devo la bella copertina di Perdersi a Roma e molto di più) sui riti pasquali in Sicilia sul sito di laRepubblica galleria immagini. Qui
Per chi volesse conoscerlo meglio www.mariodangelo.com
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