Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
Cedono i tessuti, cede la pelle delle scarpe. Qualsiasi cosa cede a farla bollire. Tutto si slabbra alla pioggia e al sole. Dopo un po' cedono anche le idee, si allentano le determinazioni. E arriva il tramonto che cede luce in cambio di qualcosa, qualcosa di poco chiaro. Facciamo anche noi così, senza più memoria, privi di impronta, al netto degli strappi e delle scuciture.
Mi fa un po' effetto dovervi dire che quello che ci aspettiamo dal buon cinema (che spesso diciamo "d'autore" come se fosse un marchio, un IGP, un DOP con quella facilità intellettuale un po' gruppuscolare e compiaciuta) debba venire da un film programmaticamente non deputato al riconoscimento che gli stiamo per attribuire. "L'ultima ruota del carro" (titolo come di una profezia che si ribalta) di Giovanni Veronesi è un piccolo capolavoro e non solo del suo genere. Una commedia ben fatta come non accadeva da tempo di vedere. Un genere che, come si sa, è consapevole di non poter ambire a più che un po' di botteghino, non diciamo vincente ma almeno ben piazzato. E invece questa volta sbanca su un altro tavolo. Lo fa con le armi, pericolose perché a doppio filo, del cliché, della storia sin troppo comune per cercare di essere innovativa. Ma con la grazia sapiente di una bella scrittura, di una efficace recitazione, di un'ottima direzione finisce per portare a casa tutta la posta. E dire che spesso il GranPremio lo vince chi osa di più. Ma in questo caso osare qui è stato lavorare in questo esatto ingaggio del facile, del modesto (una modestia sobria e non sbandierata) che si rivela vincente ma pure sbalorditivo. E dovrebbe funzionare come una buona scuola per tutto il nostro cinema. Anche d'autore. E l'ho ridetto, ecco.
Ho visto "Sole a catinelle" con Checco Zalone e non per dire io c'ero. Nella massa dei tanti che ne hanno decretato il successo ai botteghini. E' vero, come si è detto, che Zalone non porterà al cinema nuovi lettori, come Volo non nuovi lettori in libreria. Come è accaduto in passato, la televisione trash non ha tenuto, tiene o terrà in pancia la buona informazione, né il buon intrattenimento, figuriamoci la cultura. Ma tutto questo non condanna Zalone (in verità qui alla prova un po' appiccicaticcia di una trama che non tiene, anche rispetto al più compiuto precedente di "Cado dalle nubi", ma con la potenza guaritrice della risata "buona"). Come non premia il pur bel film che ho visto il giorno dopo per una sorta di riequilibrio. "Miss Violence" di Alexander Avranas è un film con la tentazione dell'apologo morale. Poca resistenza all'apologo, nessuna alla morale. E, per completezza di quadro, appone grottesco al reale: una piccola scorrettezza autoriale, a mio modo di vedere. Nella scelta tra il "credetemi vi sto per raccontare cose incredibili" s'impantana sui toni e mal governa la matassa dolorosa finendo per depotenziarla nel rivolo del paradosso. Peccato: la pista della tragedia andava già tanto bene, perché abbandonarla per cercare adattamenti e novità che poi risultano inquinanti?
Piuttosto corpulenta si sventola con ampie bracciate. Ha cinquant'anni ma ne dimostra cinque di meno. Ha avuto fino a una decina di anni fa una vita sentimentale molto attiva. Poi si è detta che non era più il tempo di averla. Nel frattempo le capitava sempre meno di essere invitata a serate allegre. Ma, almeno di fronte agli altri, continuava a sembrare allegra. E spensierata. Anche su facebook sembrava felice. Postava foto di drink e spritz. Anche su instagram correggeva in viraggi improbabilmente solari happening che apparivano divertenti. E così conservava la buona nomea di una che se la gode. Ma tutto questo che è stato qui scritto sembra essere stato scritto quindici anni fa. Prima di facebook e senza instagram. La realtà, in definitiva, è molto meno social di quel che appare.
Ogni tanto andare al cinema mi sembra uno slalom tra cose vuote. Prive di peso. Che non si ancorano a nulla pur pretendendo di aderire a qualcosa. “Bling ring” a un reportage sui nuovi adolescenti americani a caccia di lusso e soldi. Un altro film a biografie sottolineate, rimarcate. Ma mi succede anche con storie di fantasia, film meno realistici. Andare al cinema diventa un percorso a ostacoli tra l’inessenziale. Una gincana tra cose che non ti interessano, cose di cui faresti o vorresti fare a meno. Pur non volendo risultare retorico mi domando a quale ostacolo andrei incontro se decidessi di non evitare gli ostacoli. Se, vinto dalla pigrizia, andassi a impattare su tutto quello che mi trovo davanti allo schermo. Gli ostacoli più evidenti e visibili. E, pur essendo io non dotato di tv, quali rischi ulteriori affronterei se questa passività mi venisse replicata in casa. Delle volte penso a me come a un esperimento di biologia. Mi chiedo cosa ha prodotto e produrrà negli anni questa selettività. Questo schivare ostacoli molto ingombranti e difficili da girarci intorno. Anche l’idea che in fondo tutto questo tempo e spazio è sostituito da altro. Leggere. Studiare. Scegliere film. Dedicare del tempo alla spiritualità. Vedere amici o amiche e in che modo. Mi chiedo ovvero se questa infinitesima deformazione rispetto ad un’altra forma di realtà che non pratico mi porterà a occupare un posto diverso in questo spettro di vita. Emarginato? Problematico? Insulare? E cosa comporterà rispetto agli altri, se avrà ricadute minime su qualcosa o qualcuno.
Ieri con una coppia di amici siamo stati a vedere "Sacro GRA" di Gianfranco Rosi. Il film sembra prendere le mosse da "Roma" di Fellini. Struttura simile linguaggi e intenti differenti. Come se il film del regista riminese puntasse dall'esterno all'interno e il film-documetario di Rosi invece perseguisse una circolarità che non smette. Limitandosi a questo abbraccio continuo e claustrofobico ma vivo. Il linguaggio è quello di tanta letteratura e reportage di città che in questi anni si sono sviluppati ed esercitati specie sulle grandi città. Molto su Roma. Gli attraversamenti Stalker, i reportage dell'inessenziale e del non monumentale della città, la periferia non più pasoliniana e gravida di sensi di colpa se non di colpa. Un lavoro che ha riguardato molti scrittori, un testo immenso e variegato che credo non si possa non dire che abbia fatto da humus a questo lavoro. Che è però personale e riuscito. Al mio amico M. non è piaciuta la struttura aperta che a me invece convince. Perché lascia spazi che mi piace occupare. Come spettatore, intendo. Anche la metafora del punteruolo rosso mi sembra significativa. Un animale nocivo che rosicchia non visto dall'interno le palme. Riproducendosi e mettendo colonia il proprio lavoro distruttivo. Un vita-morte efficace anche nelle manovre diversive. Forse qualcosa che questa grande autostrada urbana fa. Non colta, senza generare preoccupazione. Con un sistema che in fondo è funzionale anche se mortifero. Qualcosa che viene raccontato senza orrore, timore. Naturalmente. Spettacolo: 20,25 Spettatori: circa 50 Prezzo: 6 euro
Ho letto "Sofia si veste sempre di nero" (minimum fax). Forse l'elemento più notevole del libro di Paolo Cognetti è una specie di basso continuo del non detto, del percepito ma non restituito nella forma della narrazione lineare. Come se la storia di Sofia fosse raccontata per vie interne almeno quanto per vicende esterne. Una caratteristica così poco comune nel panorama letterario italiano più propenso al racconto delle vicende, dei fatti per così dire, o della esplosione dell'Io nel racconto ombelicale delle vicende personali del personaggio narratore. Da questo punto di vista capisco quella disciplina dell'amicizia che le è stata tributata nella Rete -da cui avevo saputo del libro - come il libro di Sofia più che di Cognetti. Una cosa, penso ora, positiva o, diciamolo meglio, consustanziale alla buona letteratura.
Era montata male. Era stata montata male. Senza istruzioni. Ma funzionava. Si reggeva. Aveva persino trovato il modo per giustificare giunture che scricchiolavano, parti fuori asse rispetto al resto. Quello che davvero e nel complesso non tornava aveva finito per accettarlo. Per pigrizia aveva ritardato a riavvitare le rondelle ormai allentate e lasche. Per indolenza tutto era finito per andare verso il disfacimento. Ed è difficile ricordare perché alla fine si era deciso a rismontare ogni cosa e a provare a rimontarla. Non rammentava se era successo che qualcosa era caduto e quando. Forse di notte un qualcosa era precipitato producendo un rumore sinistro che lo aveva svegliato. Poteva anche essere successo di giorno. Forse alla fine si era sfaldato tutto nel tempo. Forse dopo stava tutto lì a terra e senza un ordine, un criterio. Forse nulla aveva più retto. Così dopo giorni e giorni aveva deciso che tutta quella roba ammucchiata non poteva più stare lì in mezzo. Che andava rimessa insieme. Ma ritardava a farlo perché non ricordava più da che parte si inizia e perché. Era soprattutto “perché” il termine della questione. L’ostacolo alla risistemazione. Poi un giorno – forse doveva aver provato a rimettere qualcosa insieme alla meglio – si era deciso a riniziare tutto daccapo. Aveva provato e si era arreso: non era più possibile sistemare, riaccorpare. Andava davvero rimesso tutto insieme di sana pianta. La tentazione iniziale era stata buttare tutto. Poi, la tentazione era stata rimettere le cose insieme alla meglio. Ma una volta doveva aver deciso che doveva essere fatto e fatto come si deve. Aveva messo da parte ogni sua capacità, il suo modo di riuscire sempre a cavarsela, di mettere le cose su come venivano riuscendo a farle stare comunque e aveva preso le istruzioni. All’inizio non era stato facile. Sapere come si fa è spesso il modo peggiore per fare ma anche una certezza a cui è difficile rinunciare. Così aveva fatto finta di dimenticare quello che sapeva e aveva rifatto passo passo quello che andava fatto. Facendo anche quelle operazioni apparentemente inutili che era abituato a saltare per andare al sodo. Non diceva “ecco come si monta”. Montava e basta. Nulla di più, nulla di meno. E tutto stava lì normale, come doveva stare, senza clamori, senza idee. Tutto funzionava senza di lui. E gli sembrava una grande libertà esserci quel che bastava. Un po’ di meno rispetto al solito. Ma nel modo in cui doveva essere. Semplice.
Arrivo tardi a dirvi di cosa parla “L'avversario” di Carrère – libro ripubblicato ora da Adelphi su cui, nel frattempo, sono scorsi inchiostro e pourparler! – così me ne disinteresso. Volutamente. Me la cavo precisando due dati necessari: 1 trattasi di cosiddetta autofiction; 2 ne è protagonista oltre allo scrittore testimone Jean-Claude Romand, autore di un’efferata serie di omicidi famigliari e di un non riuscito tentativo di suicidio al termine di questi nonché reo di aver per anni ingannato tutti (cari compresi) fingendo una vita che non ha mai vissuto. Fatte queste brevi premesse scrivo con un po’ di libertà e pretesto che per me il tema di questo libro è: quanto coefficiente di verità siamo capaci di omettere anche in buona fede. La sua trama è, definitivamente, quanto possiamo rimanere invischiati nella menzogna, nella finzione. Abbiamo o abbiamo amato davvero la moglie o il marito che abbiamo avuto? Lo, la abbiamo scelto, scelta? I figli che abbiamo avuto di che amore li abbiamo nutriti? E così via. Ma io volevo parlare non di questo libro ma dei libri. Della letteratura. Cosa voglio da Lei. Cosa mi aspetto da Lei. E c'entra la questione della verità e della finzione. La domanda è: quanta finzione anche la Letteratura – L maiuscola – può sostenere? Quanto scarto rispetto a quella e a che prezzo e scopo deve tollerare? E mi rendo conto che per me al di la del principio del piacere la vera letteratura deve mantenere un coefficiente misurato e sobrio in questo scarto. Detto questo, leggo e apprezzo libri che quel coefficiente allargano a forbice. A volta anche con piacere. A volte divertendomi. Punto. A capo.
"Una dolorosa lucidità è preferibile a una pace illusoria" su questo non posso che convenire con Carrère. Anche la narrativa non dovrebbe proporre ammaestramenti o inganni e comunque è meglio che dia anziché che dica. Che usi insomma le parole che creano piuttosto di quelle che illudono anche se poi certo c’è la poesia che gioca una fiche “effetti speciali” in più e per questo è sottomessa (pur con la concessione ampia della musicalità) alla regola dell’opportunità e della necessità in modo più stringente. Chiusa parentesi. In definitiva scrivere una storia dovrebbe contenere una sfida all'ordine costituito della realtà quanto della finzione che spesso pari sono nei termini della caccia alla verità per come la intendo io. Quello che forse insinua nel finale de “L’Avversario” Carrère: "un crimine o una preghiera". Un crimine o una preghiera. Trovate voi il regolo di queste parole. Verrebbe da parafrasare la sentenza degli psichiatri su Romand: "prima tutti credevano a tutto ciò che diceva, adesso nessuno crede più a niente, e lui stesso non sa cosa credere, perché non ha accesso alla propria verità, ma la ricostruisce con l'aiuto delle interpretazioni che gli offrono gli psichiatri, il giudice e i media". Il destino della letteratura è credere in se stessa e così farsi credere. La verità c'entra anche se in una forma non realistica e non per forza reale. La verità c’entra sempre. Nella letteratura come nella vita.
Quindici anni fa avevo un’altra religiosità, cantava Vasco anni fa. Più di quindici. Nel 1979 per essere precisi. Quindici anni fa nasceva invece Google. Mi ricordo poco di quindici anni fa. Poco di Google. Arrivo a tutte le cose con un piccolo scarto di anni. Mi ricordo casa di un amico smanettone, una di quelle cene che si aprono con le patatine e i puff e si chiudono con l’insalata di riso. Il vino? Corvo o Galestro. Mi ricordo solo che disse che non bisognava cercare su Google ma su AltaVista. E a me pareva naturale: erano più belle quelle montagne innevate. Le parole sembravano uscire da lì come da una fonte naturale, purissima, altissima eccetera. La casella di posta andava aperta su Hotmail ma io la aprii su Tiscali perché mi piaceva di più il colore e il font. Mi piaceva anche Virgilio ma il nome mi metteva un po’ di ansia. La posta doveva contenere un nomignolo. O, meglio, quelli che smanettavano lo avevano. Il loro nome di battaglia. Forse perché non ci si poteva chiamare Smanettone 1, Smanettone 2, Smanettone 3. Ma c’erano già quelli che avevano la posta di Mclink e ora, quando, l’incontri ti viene da trattarli come profeti. Quando ho iniziato davvero io a smanettare non era più in tempo per i nick. Avevo una posta con nome e cognome intero. In fondo non mi chiamo Massimiliano Massimiliani. Si poteva fare. Le cose sono cambiate da allora. Certe forme di religiosità si esauriscono naturalmente. Altre no. La religiosità dei capperi, la religiosità dei The Smiths, quella dello zabaione, quella delle due ruote, quella dell’autunno. Le cose pratiche seguono invece un loro corso naturale. A dispetto di una delle cose che da sempre ha per me una considerazione capitale ovvero l’estetica. Non riesco a fare una cosa che non mi piace. A mangiare una cosa buona in un piatto brutto. Altrimenti faccio cose che devo fare, mi comporto come mi devo comportare. Quasi sempre. Insomma, mi si può portare a una cena. Non faccio sfigurare a una festa. Non vi faccio vergognare a un evento glamour (ma se potete evitare di invitarmi…). Ho persino una mia forma di fedeltà nel tempo. C’è qualcosa che faccio da quasi venticinque anni e qualcun’altra da prima ancora. Ma una delle cose che faccio sempre, da sempre, anche quando entro in una stanza, in una casa, in un albergo è chiedermi se mi piace. L’altra è interrogarmi in definitiva e in ultimo se mi serve, mi è in qualche modo necessaria e solo dopo, quasi come un aut aut, se è utile se ne verranno delle cose buone per me o altri. Il resto succede nonostante me.
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