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 il letto di siena... di Carvelli
 
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L'Amore è l'agire in modo piacevole di udito, tatto, vista, gusto e odorato, ciascuno nel proprio ambito, presieduti dalla mente congiunta con l'anima. Ma in particolare l'Amore è, di quest'ultima, l'adeguata sensazione, pervasa dalla gioia che viene dalla consapevolezza e ricca di risultati, in relazione a uno speciale contatto.

Vatsyayana
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Di seguito tutti gli interventi pubblicati sul sito, in ordine cronologico.
 
 
Di Carvelli (del 04/06/2008 @ 09:13:58, in diario, linkato 786 volte)
In continuazione inseguo le cose. Una sempre davanti e io sempre dietro. Il fastidioso è che cammino discosto. Come se non me ne fregasse nulla poi, all'improvviso, alla prima svolta, al curvare della strada (quando la cosa scompare all'orizzonte) incomincio a correre come un forsennato. Dunque: inseguo le cose. Il punto non è mostrare di non farlo ma stare al passo. La sostanza dell'inseguimento non cambia. E non serve la mia demistificazione, il mio fare il verso del disinteresse. Le cose vanno e io dietro. Perché non vado alla velocità delle cose?
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Di Carvelli (del 03/06/2008 @ 14:59:38, in diario, linkato 1131 volte)

Questo racconto l'ho scritto un po' di tempo fa per l'Unità-Roma.

Pantoni, Pantani e prosciutti

 

di Roberto Carvelli

Gli sto dietro da un po’. Più che incuriosito, affascinato: dalle loro mute aderenti e ipercolorate con sigle strane, pubblicità attaccate ai loro dorsali, spot sui glutei o sui flessori. E’ un gruppo di cicloamatori che si dà raccolta a Subaugusta o in cima a via di Capannelle, incrocio con via Tuscolana. Gli ho fatto le poste per giorni. Un po’ saranno state le piogge ma non certo il freddo perché oggi farà qualche linea sullo zero e arrivano alla spicciolata con il loro pantone di tessuti fosforescenti. “Piacere, Fabio” e iniziamo a parlare. Partiamo da questa gloriosa passione: le due ruote. “Io” mi racconta Fabio “per allenarmi prendo ferie e permessi dal lavoro”. Il suo piccolo sacrificio è pedalare: non solo fatica ma pure organizzazione del tempo – quello libero, per capirci. Gli vedo la fede alla mano e mi ricordo di un’amica che mi raccontava la passione maldigerita del marito per le due ruote ma lui andava solo. Qui di sabato o domenica dice Fabio “puoi arrivare a vedere anche duecento di noi”. E,, anche oggi che è un venerdì conto un’ottantina di casacche variopinte. A un certo punto persino un furgone che segue un gruppetto monocolore. “Tra di noi” dice Antonio, qualche anno più dell’amico “c’è chi ha passato i sessanta e qualcuno anche i settanta”. Ma a dispetto di quello che posso pensare mi dice che è gente che come loro “si macina i centoventi chilometri”. Dubitavo e, infatti, tiro le conclusioni errate: “dunque rientrate la sera?” Fabio: “Ma che, per pranzo siamo a casa”. Mi sorprende il senso di inferiorità. Cicloamatori. Che strana festa agonistica. Un andare negli anni e degli anni senza cedimenti fisici. Eppure Antonio mi intima “Scrivilo che razza di strade percorriamo, scrivilo che rischiamo la vita sempre. Tra di noi c’è gente che si è fatta il suo bel coma. Gente tutta rotta. Gente che ha lottato per ritornare in vita e poi sui pedali”. L’ho promesso e l’ho scritto. Ecco fatto: ma non è questione di correttezza è che sono giorni in cui non si può e non si deve non pensare a quanto le macchine – e macchine sempre più grandi, alte e corazzate, macchine spesso clonate sulla misura delle guerre e degli eserciti che le combattono – abbiano reso le nostre strade (non solo extraurbane) un campo di battaglia con caduti e gente che li piange, fiori e lapidi ai bordi delle strade. Mi indicano un signore che, certo, deve suonare sotto i metal detector tutto pieno di ferro e viti. Sono tempi duri per il ciclismo. “Non si sa perché” mi dice Fabio “uno sport così illustre sia finito per essere demonizzato”. Come ovvio finiamo per parlare di doping e “intanto” mi dice Antonio “perché non è successo altrettanto con l’atletica leggera? Anche lì sono scoppiati casi imbarazzanti eppure non c’è stato un attacco così sistematico e radicale”. Su Pantani, ad esempio, la versione è comune: “Mettiamo pure che ci fosse davvero un problema di sostanze perché proprio lui e lui in quel momento. E poi, doping o meno, se lo faceva lui lo facevano anche altri come poi si è visto. Il fatto che vincesse tanto e in quel modo non sta a dire che si dopasse più di altri, era solo che era molto più forte degli altri. Il doping aiuta ma non ti fa diventare un campione”. Affondo: “E tra voi? C’è gente che si dopa (qualcuno mi ha detto che il doping è diffuso anche tra gli amatori)?”. Il silenzio è generale. Poi Fabio rompe l’imbarazzo: “Personalmente io uso solo bistecche” e anche Antonio conferma per sé. Ma nessuno sembra voler mettere la bistecca sul fuoco per tutti gli altri. Passa un gruppetto e ci si saluta. “Questi” dice Fabio “sono veramente forti”. Parliamo delle gare, dei prosciutti e delle coppe (queste ultime non di suino) che si vincono. Magra consolazione? Mica tanto: la vittoria li lusinga nel gesto sportivo, non nel premio. Mi spiegano che esiste un percorso invernale (quello di oggi, ad esempio) verso il mare: Capannelle, Cristoforo Colombo, Ostia e ritorno. E uno estivo: “Con molta più scelta” rimarca Massimo, uno che i sessanta li ha passati (“sessantuno” mi ha detto fiero). “D’estate saliamo di più. Hai presente Tivoli? Più su…San Polo dei Cavalieri e ancora oltre”. Parliamo di attrezzature: bici da 3.500-5 mila euro. “Ma con 1.500” dice Massimo “una bella bici la prendi”.
Ripartono. Ancora una volta – stavolta letteralmente – gli sto dietro. Loro tutti compenetrati in una pedalata regolare e imperiosa (“sul lungomare – mi aveva detto Antonio – “si arriva a 45 km/h”) in bici, le mani sulla barra orizzontale del manubrio, e io dietro, in vespa. Ognuno con i suoi problemi: soprattutto quello di rimanere in sella, in questo urban rodeo che è andare per città in bilico su due ruote mentre tutt’intorno piovono bombe e SUV.

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Di Carvelli (del 03/06/2008 @ 09:14:45, in diario, linkato 829 volte)

Vuoi un titolo al quadro o alla sua imitazione...?
Un consiglio lo accetti...? E' da grande illusione....
"The dragon"..."the dragon"... That's the dragon...

Mi specchio in qualcosa che mai sarei stato, che mai farei. Mi confronto con i gusti degli altri. Senza intermediazioni sono a specchio con un'estetica che discuto, rifiuto. Eppure, per il principio dello specchio sarà la mia. Forse potremmo abitare altrove o forse dovremmo cambiare il colore di questo abitare qui. Piove a dirotto. Un giorno c'è stata carne alla brace. Un altro uno stendino che guardava, coperto, la pioggia. Dice "come una molletta al filo". Finiamo sempre così. Piove. Ancora. Vorrei non avere orecchie (solo certe volte) solo occhi (solo certe volte). Ma non si può sempre scollegare tutto. Scrivo senza un nesso. Cose che aspettano una forma. Un titolo.

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Di Carvelli (del 30/05/2008 @ 11:54:51, in diario, linkato 1408 volte)
Lettere da una affinità estetica e affettiva
Entrambi stranieri all'italiano, la scrittrice austriaca e il musicista tedesco lo scelsero come lingua del cuore nel rapporto che li unì per oltre vent'anni. Una anticipazione dalla loro corrispondenza, in uscita giovedì per la Edt con il titolo «Lettere da un'amicizia»

A Ingeborg Bachmann
Ischia, 7 luglio 1953
7 GIUGLIO SAN FRANCESCO
CASA CAPUANA
FORIO D'ISCHIA
(NAPOLI)
Cara ingeborg bachmann, certo è pericoloso essere favoriti dalla fortuna e ricevere troppo affetto, ma un po' di fortuna di quella che non gocciola dalle grondaie intellettuali e non va a finire in fauci intellettuali, un po' di gioia delicata e di amore, forse, su una terra molto fredda sconosciuta e incontaminata, piccoli miracoli di bellezza e purezza, non può essere che un bene per chi ha voglia di lavorare: ed è questo che il futuro deve darci, spero che mi capisca. se Lei immaginasse quanto sto bene qui! inoltre è accaduto come un miracolo, apollo calando dal sole si è stabilito in quella parte chiamata san francesco dal santo di assisi, in basso, al di sotto dei vigneti, tutto avvolto da raggi di colore azzurro scuro. antico sguardo ferino. il resto non conta, comincio a lavorare, come se fosse la prima volta. nulla è accaduto finora. perché non viene qui? se mi dice precisamente che idea si è fatta (anche riguardo la spesa) Le cerco qualcosa, così quando viene troverà tutto a posto. ma è meglio se viene prima così poi si mette a cercare da sola, il che è più bello, così,anche in questo caso, non avrà da ringraziare nessuno se non se stessa.
Suo hw. henze
A Hans Werner Henze
(minuta di lettera)
Klagenfurt, I novembre 1955
Klagenfurt
Henselstraße 16
il I novembre 1955
Caro Hans,
Questo pomerigio è arrivata la tua lettera, e mi tocca molto che è venuto ancora una volta un tempo il quale porta fuori la necessità della nostra amicizia o come si vuol chiamare questa stranezza. Penso che sento abbastanza bene il tuo buio - anche senza sapere i ragioni presenti, i detagli - e non sono meno importanti? Non è sempre lo stesso male che fa soffrire, nascosto o aperto?
Ma prima di darti coraggio, lasciami dire un'altra cosa, un po' in relazione col problema. In una tua letteratu scrivi che io non ho detto la piena verità sulla mia situazione; questo è vero, ma non parlo perché so che posso convincere questo stato meglio senza parlare. Non è una mancanza di fiducia. Tu capisci: abbiamo parlato raramente su di me in questi ultimi tempi, e era anche poco utile, poco necessario, perché abbiamo vissuto tu là e io là, era anche bene per trovare una base più libera. Però mi sento su questa base libera nonostante più vicino a te e pronta per che cosa sempre.
A Ingeborg Bachmann
Napoli, 30aprile - 2 maggio 1958
30 aprile 1958
Divina, gemma come dura pietra, proprio adesso è arrivato un cablo dal covent garden, dove dicono che mi vogliono vedere lì soltanto alla fine di giugno. il che mi fa anche piacere a causa del mio hölderlin, ma mi dispiace perché così lo changement d'air va a farsi benedire insieme ai sopramobili inglesi che pensavo di acquistare, i soldatini scozzesi appisolati sui cannoni, le pastorelle e i caprioli dipinti in terracotta, per i quali vado matto. e questo significa che tu ancora una volta dovrai prendere una decisione. sarebbe magnifico se tu salissi su un avion e spuntassi qui, sarebbe divino e fantastico e sarei contento da morire! troverai ad attenderti un delizioso appartement e un hans che verrà a prenderti alla stazione o all'aeroporto con una elegante 1100 dalla linea slanciata e la bella terrazza ecc. ecc. e noi ci divertiremo da morire. se ti sbrighi potresti addirittura beccare la compagnia stoppa-morelli che presenta «uno sguardo dal ponte» nell'adattamento di luchino. splendida ape regina, principessa dei piselli, sanguisuga argentata, strega della poesia, suvvia non dir di no, venire devi. che ne dici alla fine della settimana? oppure?
please make me happy!
at least for a week you must stay!
hans
A Hans Werner Henze
Uetikon am See, 4 gennaio 1963
4 - 1 - 63
Uetikon am See
Seestrasse, Schweiz
Tel: 740213
Caro, caro Hans, non pensare che facevo soltanto chiacchiere quando dicevo che volevo scriverti spesso - perché tante volte ho davvero iniziato, ho cercato di strappare dolorosamente al mio mutismo qualche parola, ma non ci sono riuscita. Oggi sono capace, perché ormai per me è certo che la vita degli ultimi anni è finita. Non so proprio da dove iniziare. Va avanti così già da quattro mesi, da quando mi trovo qui terribilmente sola e isolata da tutto e quelle poche volte che vedevo qualcuno per un'ora dovevo per giunta fare bella figura, ho dovuto fingere che non ci sia niente, soltanto un po di malattia. Ma non era vero, non era un po di malattia, ho dovuto andare alla clinica due mesi fa, perche ho provato di suicidarmi, ma non lo farò mai più, era una pazzia, e ti giuro che non lo faccio mai più. Poi c'è oltre ora questa operazione che anche era molto grave per me, più psichicamente, ma per questo anche più grave fisicamente. Adesso sono uscita dall'ospedale e sto sui miei piedi e comincio di sperare un po, non so esattamente che cosa, ma semplicemente spero che ci sia ancora qualcosa, lavoro, l'aria, mare, di tanto in tanto, più tardi, un po di allegria. (...)
Tutto è stato come una lunga lunga agonia, settimana per settimana, e non lo so proprio perché, non é gelosia, e tutt'un altra cosa; forse perché ho voluto veramente, tanti anni fa, fondare una cosa durabile, «normale», alle volte contro le mie possibilita di vivere, ho insistito sempre di nuovo anche se ho sentito di tanto in tanto che la trasformazione necessaria ferisce la mia legge o mio destino - non so come esprimerlo bene. Forse pure queste spiegazioni sono false - ma il fatto è che sono ferita a morte e che questa separazione è il piu grande fiasco della mia vita. Non posso imaginare una cosa più tremenda di questa che ho vissuta e che mi possessiona ancora oggi, anche se oggi comincio a dirmi che devo continuare, che devo pensare ad un futuro, ad un vita nuova. Ti scrivo tutto questo non solo per parlare con te, ma per farti capire che non è un capriccio se insisto tanto che tu venga per un giorno o due da qualche parte con me, che mi stia vicino - ne ho tanto bisogno. Lo so bene che per te adesso - con tanto lavoro e tante faccende importanti - è difficile fare un viaggio e so anche bene che preferiresti dieci volte di più fare altro e anch'io te lo consiglierei. E poi il tempo, l'inverno, certo non contribuiscono a rendere più allettante il viaggio per te. Ma ti prego, ti prego vieni con me e puoi essere certo che io non me ne starò seduta accanto a te con il broncio e durante il viaggio non sarò per te un peso, una pietra.
Devo fuggire via da qui, anche soltanto per qualche giorno, e vorrei tanto essere felice con te e godere di ogni metro di strada e di ogni luogo e di ogni cibo. E non conosco nessuno con il quale io posso farlo e vorrei poterlo fare, eccetto te. Sì Hans è ingiusto quello che chiedo, ma se esiste un cielo certamente ti ricompenserà. Degli amici nessuno sa ancora che ci lasciamo, attenderò ancora qualche giorno, finché Max a New York non si sarà liberato delle due faticose serate di gala, questa e la prossima settimana. Allora gli scriverò, che nemmeno per salvare le apparenze sono disposta a far durare oltre la cosa e poi non ce la faccio proprio più a continuare, perché tutto ciò mi tiene legata - ed io adesso ho urgente bisogno di muovermi liberamente. Per il momento non dire ancora niente a nessuno; aspetta un po' e sarò io stessa a dirlo, se è necessario, con un «no comment». Adesso io spero, spero, spero che non succede nessun imprevisto e tu venerdì presto potrai darmi una buona notizia. Vorrei tanto rivedere Napoli, è proprio infantile, ma lo vorrei tanto e immagino già tutto il viaggio, le stradine e l'autostrada, può darsi che io poi non resto - sivedrà - ma ritorno con te. Questo sarebbe già, non credi?, abbastanza ragionevole. Adesso faccio solo cose ragionevoli, mi riposo per bene, per essere in piena forma, e presentarmi a te nella condizione migliore, le carte stradali le so ancora leggere molto bene, anche se noi due il «sud» lo conosciamo a memoria.
Hans, ti prego!
Ti abbraccio
Tua Ingeborg
LUI Hans Werner Henze Compositore tedesco, orchestratore raffinato, marxista convinto, Hans Werner Henze - nato nel 1926 - è dotato di una parabola compositiva che dal neo-classicismo va fino al jazz. Allievo di Wolfgang Fortner, cominciò con l'utilizzare la tecnica dodecafonica per poi disertare gli obblighi dello strutturalismo e della atonalità, fino introdurre, per esempio, in «Boulevard Solitude», elementi del jazz e della canzone francese. Nel '76 ha fondato il Cantiere Internazionale d'Arte a Montepulciano, dove venne eseguita la sua opera per bambini «Pollicino». LEI Ingeborg Bachmann Poetessa e romanziera nata a Klagenfurt in Carinzia nel 1926, allieva del filosofo della scienza Victor Kraft, debuttò scrivendo per la radio ma si fece conoscere tramite il Gruppo '47, che la invitò per la prima volta nel 1953 . Fra le sue opere più riuscite e più note il romanzo «Malina» del 1971, prima parte di una trilogia concepita con il titolo «Cause di morte», la cui seconda e terza parte restò in forma di frammenti. Scrisse libretti per opere musicate da Henze, e gli ultimi racconti vennero raccolti sotto il titolo «Simultan». Morì per le conseguenze di un incendio scoppiato nella sua casa romana nel 1973.
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Di Carvelli (del 30/05/2008 @ 11:40:33, in diario, linkato 1331 volte)
Una è questa http://www.repubblica.it/2008/05/sezioni/ambiente/tribu-amazzonia/tribu-amazzonia/tribu-amazzonia.html e foto correlate. E' affascinante sapere che da qualche parte ancora qualcuno si è salvato da tante cose per noi così inutilmente fondamentali. Virtù delle foreste. L'altra e questa http://nuovavenezia.repubblica.it/dettaglio/Io-sexy-sindachessa-scrivo-di-erotismo-contro-l-ipocrisia-del-Nordest/1469716?edizione=EdRegionale e di affascinante ha solo colei che si è cimentata nella scrittura e l'idea di averlo fatto mettendo a repentaglio la sua carica perché per il resto fa un po' impressione. Ovvero che la letteratura abbia il potere di far tremare la poltrona delle povera Clara Caverzan rea di aver scritto di sesso. Non ho letto il libro ma mi stupisco sempre un po' quando a scrittura segue paura. Penso al nesso foresta/sessualità. Mi esercito per capire cosa faccia bene e a chi.
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Di Carvelli (del 30/05/2008 @ 08:51:32, in diario, linkato 1208 volte)
Ieri metro. Uscendo una ragazza diceva "je pija a male". Je pija a male. Je pija a male. Sono stato un bel po' a pensare perché non "je pija male". Io me la ricordavo così. Gli (o le...è uguale) prende male, non gli va bene, si arrabbia, lo fa indispettire eccetera eccetera. Sempre più spesso sento dire Je pija a male e mi domando se sia contaminazione laziale del romanesco (in questi giorni esce, dedicato, un libro di Trifone: verificare). Qual è la versione più rispondente alla grammatica italiana? Un tempo si diceva pija subbito d'aceto (per s'inacidisce). Boh non so. Noi c'abbiamo il nostro dialetto. Diciamo fica e non figa (anche se suona male, più duro con quella c e non adatto all'intercalare ma sicuramente più adatto per il resto). Diciamo "mavaffanculo" (prendendo la ricorsa e senza risparmiare effe e c). E' un dialetto duro. Che non risparmia i raddoppi ( appunto  subbito)ma poi (un po' ironicamente, ma senza rendersene conto, leva le doppie...matina invece di mattina). Sicuramente se a uno dici dajie ivece di dai gli verrà più voglia di muoversi, si sentirà più incoraggiato all'azione. Forse i dialetti servono prima che sono. Ecco allora che Roma avrà autoprodotto per sé un dialetto irriverente e duro (non sarà che è un'autoimmunizzarsi contro il potere qui molto praticato iun tutte le sue sfere?). Un dialetto sonoro e veloce: provate a cronometrare coglioni e cojoni. Un'arma di offesa quindi (di difesa in ultimo). Parole che servono da scudo. O un lancio di pietre per allontanare i malintenzionati. Anche solo idealmente. Irridere il potere=avere potere proprio. Anche se poi è tutta un'illusione.
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Di Carvelli (del 29/05/2008 @ 16:42:02, in diario, linkato 1170 volte)
"Quale romanziere non guarda agli anni degli esordi con meraviglia e quella dolente invidia che l'immagine di noi stessi giovani ci ispira? Quanto gli sembrava facile allora creare quegli esserini di carta, e, una volta creati, quanto erano malleabili, pronti alle sue necessità, avidi dei suoi ordini..."
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Di Carvelli (del 29/05/2008 @ 13:03:59, in diario, linkato 1140 volte)
«Forse l’unica ragione per cui io mi considero un uomo intelligente è appunto il fatto che in tutta la vita non sono mai riuscito a cominciare né a finire nulla […] ma che farci, se  l’unica, immutabile strada che sia data a un uomo intelligente è precisamente quella della chiaccchiera, ovverosia di un premeditato travasare del vuoto nel vuoto?» (Fedor Dostoevskij, “Memorie dal sottosuolo”).
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Di Carvelli (del 29/05/2008 @ 09:37:03, in diario, linkato 1160 volte)

Leggo dell'Argentina. E' quella di Antonio Moresco. In Scritti di viaggio, di combattimento e di sogno (Fanucci). E' un bel titolo tra l'altro: non nel senso estetico ma per completezza di contenuto. "Si vede che ci sono momenti che bisogna improvvisamente viaggiare" così parte Moresco. Dalla rottura di una stasi. Una lunga stasi.
La Buenos Aires di Moresco è città di contrasti. Mi sorprende questa consonanza (dovrei dire corrispondenza antropologico-evoluzionista): "Passano continuamente tutti questi corpi grandi, donne belle, impennate, dalle forti strutture ossee, le schiene dritte, le ossa delle spalle in linea retta e gettate all'indietro, le tette in fuori, la spina dorsale animale dritta, incavata, il culo forte che sporge. E mi viene da pensare che tutto l'orrore che c'è stato in questa città e in questo paese, tutta la violenza fisica, diretta, da uomo a uomo, sui corpi, questa macchina spaventosa della tortura dei corpi è stata se possibile ancora più spaventosa anche perché ha avuto a che fare con questi corpi forti di grandi mangiatori di carne, dotati di una simile potenza ossea e così pieni di sangue, che altri mangiatori di carne pieni di sangue hanno a uno a uno steso sui lettini, per giorni e giorni, per mesi, torturato, stuprato, gettato giù dagli aerei, strappando i neonati dalle viscere delle madri per poi segregarli in nuove carceri famigliari, cose inventate qui e mai successe prima allo stesso modo in nessun altro paese, da nessun'altra parte, tutto in nome dell'Ordine e della Cristianità e dell'Occidente, nello spaventoso silenzio complice delle alte gerarchie della stessa Chiesa che pure si dice nata da un leggendario torturato e condannato a morte".

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Di Carvelli (del 28/05/2008 @ 10:22:45, in diario, linkato 1597 volte)

Sull'ultimo numero on line di Silmarillon intervista scritta a me e visual al mio editor Daniela D'Angelo. Come dire: camera e cucina. Un appartamentino insomma. Manca il bagno, direte? Ma no. Il bagno c'è. C'è sempre qualcosa che si butta nella scrittura e nel lavoro di editing. Anche a malincuore. Eppure serve buttare e anche tirare lo sciacquone. Buttare è la prima cosa. Ma buttare e conservare nella mente (fare come se ancora fosse lì, a portata di mano, che lo puoi recuperare non è la stessa cosa). Buttare è buttare. Rinunciare, fare vuoto. Tirare la catena e basta. Questa è una cosa che ha molto a che fare con la religione, con la fede, con la mistica. Ecco volevo parlare della scrittura e lo sciacquone. L'ho fatto. L'editor per me è (non è solo questo) quello che ti dice "butta" e tu butti. Poi ti dice "tira la catena" e tu arrivi persino ad imitare il verso dello sciacquone. Ma finché non tiri davvero la catena l'esperienza mistica non scatta e la casa, peraltro, rimane anche un po' sporca. La ragione per cui spesso leggiamo tanti brutti secondi o terzi o decimi libri di un autore nasce da qui. Che crescendo nessuno scrittore vuole sentirsi dire tira l'acqua. E scrive con questo culto delle sue...interiorità. Questo è spesso un fallimento della mistica della scrittura e il trionfo dell'egotismo. Il successo, la vendibilità, il trionfo dell'immagine e del market autoriale non ha nulla a che vedere con la qualità e potremmo fare l'esempio tragico di libri di grande successo e premi che meriterebbero ogni tre per due un "tira la catena". Ecco: io soffro nel vedere tanta...interiorità...nei libri (anche nei miei: ad esempio in Kamasutra c'è qualche mancato tira la catena, lo so). Mi sembra un po' di cattivo gusto e irrispettoso verso il lettore anche se spesso chi sente l'odore è solo quello più smaliziato. Scusate questo breve inno alla deiezione. Così, di mattina.

www.silmarillon.it/homepage.asp?numero_ID=20

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