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Di seguito gli articoli e le fotografie pubblicati nella giornata richiesta.
Articoli del 13/06/2008

Boris Pahor. La memoria e il dolore
di Roberto Carvelli
Il caso Pahor avrebbe dovuto scoppiare prima in Italia perché Boris Pahor pubblica regolarmente nel nostro Paese ma in lingua slovena dal 1948 e da diversi anni ha ricevuto i giusti riconoscimenti in Francia, Germania e Usa. Il caso Pahor avrebbe dovuto accasarsi prima tra gli editori italiani non fosse altro per il fatto che il Nostro porta sulla carta d’identità la città di Trieste e il 1913 come data di nascita. A dispetto della quale è ancora nel pieno dell’attività e una sua recente presenza alla trasmissione di Fabio Fazio gli ha regalato simpatia generale e i primi posti delle classifiche di vendita. Se non fosse stato per le anticipazioni meritorie di un editore di Rovereto, Nicolodi, che aveva mandato in stampa Il rogo nel porto, La villa sul lago e Il petalo giallo (2001, 2002 e 2003, rispettivamente) di Pahor non avremmo saputo nulla o quasi. Ci è voluta la ripubblicazione (leggermente rivisitata) del suo capolavoro Necropoli (Fazi, € 16,00) per un editore medio-grande e più saldamente innestato nelle politiche culturali (le pagine dei giornali, i critici, l’indirizzo verso un ripensamento della sua figura intellettuale). E’ così che va il mondo. A me di Pahor avevano già parlato amici sloveni e un ricercatore di Napoli e blogger - www.malacarne.splinder.com - trasmettendomi la copia iniziatica di quella prima stampa a cura del Consorzio Culturale del Monfalconese. Dunque ecco Nekropola con tutto il suo portato di dolore, quello dei campi di concentramento, un dolore che Pahor racconta e rivisita nel rivivere dei ricordi e nel presente di un ritorno nei luoghi dei delitti. E’ possibile andare in gita in un campo senza sentirsi turisti? L’autore solo pare permettersi con sofferenza di dire in bel no. I ricordi dello scrittore triestino di lingua slovena sono sì dolorosi ma di un dolore naturale che fa ancora più male nell’osservazione sobria della scala delle valutazioni: “L’estate era magnifica, anche se non per noi”. Un dolore spiegato: “Non eravamo stati rinchiusi lassù per sperimentare insoliti punti di vista sugli insediamenti umani, ma perché potessimo renderci conto con chiarezza di quanto fosse assoluta la nostra distanza da quegli insediamenti”. Oltre alla banalità del male c’è, ben oltre essa, una vera e propria beffa del male. La “natura carsica” del carattere dell’autore fa da propellente per il rinforzarsi dell’impressione del grande deliquio compiuto quasi alla metà del secolo scorso da una nazione, una parte, per quanto mal consigliata automotivatissima, del genere umano verso un’altra parte del genere umano. Una parte, quest’ultima, declinata e divisa per triangoli sulla veste (massimo esempio di massimizzazione disumana). Pahor ha il sospetto, in effetti, che questa banalità sia una normalità del male: “Oppure l’uomo, a dispetto della propria natura, accetta inconsciamente le regole di un ambiente in cui anche la morte si attiene a un orario e a un ordine del giorno”. Quello di Pahor è un libro che sta a tutti gli effetti al fianco delle opere prestigiose di Levi e Kertesz e le classifiche di vendita una volta (ma speriamo due o tre volte) tanto raccontano un interesse che ci fa piacere veder esplodere facendo scoppiare il male negazionista o tardo-nazifascista che ancora inquina molte menti perturbate dal male.
L'ho letta all'alba dunque garantisco sulla freschezza ma non sulla verosimiglianza. Ma ci provo. Viene da una scrittura buddista ma la storia è un apologo universale. La storia di un mercante che finisce - siamo nel regno di Parthia, in India - nelle spire dell'insana passione del re di quei luoghi per i cavalli. Passione che si acuisce fino alla preparazione di un intruglio dalle foglie larghe capace di trasformare persone in cavalli. Come forma di cortesia il re decide di testarla solo sugli stranieri - stante le proteste interne - e i malcapitati si mutano in equini. ma quel mercante ha un "figlio devoto", così si chiama lo scritto in italiano che ho letto (è di Nichiren Daishonin). Bene, quel figlio che fa? Come dimostrazione di amore filiale va a cercare il padre e, trovatolo e recuperata la stessa erba gliela dà in pasto ottendendo la reversibilità della trasformazione. Dunque un figlio può salvare un padre. Sì, un figlio può. Non si dice che deve e non si dice come salvare e cosa si salva. Ogni tanto sento dire (leggo) "uccidere il padre" (la freudiana teoria ormai assodata) e penso che per molti si trasformi in una specie di regolamento di conti sotto mutate spoglie (mutate sta per non violente fisicamente). A me è chiaro cosa voglia dire e non si configura diversamente dalla storiella che vi ho citato. Insomma, salvare e uccidere per me qui hanno una parentela non così lontana. Dove salvare significa restituire una dignità superiore alla luce di una crescita (del figlio). Una specie di felice superamento e insieme una restituzione. Purché il tutto avvenga senza violenza e per devozione. E perché sia così non deve essere un fatto personale. Perché non è mai un fatto personale la trasformazione che qui si richiede, il salvare, il trascendere (appunto). Per fare questo serve poca persona e per attenuare la persona serve un qualcosa di più grande a cui riferirsi per controbilanciare il nostro breve orizzonte. E non è facile? No, non lo è. Anche se è semplice.
Fotografie del 13/06/2008
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